Elena Lisa, La Stampa 4/1/2010, 4 gennaio 2010
Quella sniffata con papà Genitori e figli insieme nelle comunità di recupero contro la dipendenza da cocaina Un fenomeno in crescita: professionisti benestanti che hanno coinvolto i loro ragazzi Un anno fa ero in cima al mondo, avevo denaro e successo
Quella sniffata con papà Genitori e figli insieme nelle comunità di recupero contro la dipendenza da cocaina Un fenomeno in crescita: professionisti benestanti che hanno coinvolto i loro ragazzi Un anno fa ero in cima al mondo, avevo denaro e successo. Oggi invece sto perdendo tutto: il lavoro, la famiglia, il rapporto con mio figlio che ha soltanto 17 anni. Quest’estate mi ha confidato di aver preso la cocaina con un gruppetto di compagni. Come potevo dirgli di smettere? Sapeva che sniffavo anch’io, mi aveva visto farlo a casa con gli amici. Gli ho detto solo di fare attenzione, e qualche volta abbiamo anche ”tirato” insieme». Paolo M., 49 anni, a Milano è un dentista affermato: il suo studio, non troppo distante da piazza San Babila, è frequentato da vip della televisione, donne soprattutto, che si sottopongono a una tecnica particolare che rende denti bianchissimi e sorrisi smaglianti. Sorrisi che lui, il dentista, non sembra nemmeno riuscire ad abbozzare. Il dentista e il liceale Da due mesi sta cercando di disintossicarsi assieme al figlio, studente al terzo anno di liceo classico, e per farlo ha chiesto aiuto a don Antonio Mazzi, fondatore di Exodus, la rete di comunità di recupero e di assistenza agli emarginati. In cura con loro ci sono altre cinque «coppie famigliari», altri padri, all’incirca della stessa età (tre imprenditori, un medico e un avvocato), e altri figli (studenti) adolescenti o poco più. Genitori che sono stati sorpresi dai ragazzi mentre arrotolavano banconote per sniffare e che, per sdrammatizzare il gesto, hanno finito per coinvolgerli. Oppure ragazzi già consumatori che, riconoscendo i sintomi della droga nei più adulti, hanno rovistato nei loro cassetti e trovato bustine di cocaina. «Non ci dormo la notte – dice don Mazzi - da mesi ricevo mail di uomini benestanti, con una solida posizione sociale, ottimi stipendi e famiglie che a guardarle sembrano il ritratto delle pubblicità. Raccontano di essere prigionieri della dipendenza, di ”pippare” con i figli, di essere allo sbando e non sapere come uscirne». La mamma non sa niente Eccola una delle facce nascoste, dell’uso forsennato di droga nella metropoli, Milano, nelle statistiche la capitale d’Italia della cocaina, tra le prime città consumatrici in Europa: padre e figlio che sniffano insieme, così, ogni tanto, a casa, il sabato sera, prima d’uscire. Meglio ancora se la mamma non lo sa. Chi lavora nei centri di recupero e nelle cliniche riesce a spiegare il livello di capillarità raggiunto e l’impennata di diffusione della cocaina solo attraverso una metafora: «La polvere bianca è la guerra del nostro secolo – dice Roberto Bertolli, direttore del reparto per gli abusi di sostanze della casa di cura privata Le Betulle, ad Appiano Gentile, alle porte di Milano ”. Da sempre la generazione adulta, per motivi legati al denaro, manda a morire in trincea quella più giovane. La battaglia di oggi si chiama cocaina, e i cinquantenni colpiti da lesioni cerebrali dovuti alla droga, che vivranno nella società di domani, saranno come i reduci di guerra dell’altro secolo». Una previsione disastrosa che non nasce da pessimismo, ma dall’esperienza. L’ultima, quella che si è appena affacciata alla conoscenza degli specialisti, riguarda proprio le «sniffate condivise» in famiglia. «La nostra clinica è drug free – spiega Bertolli – ciò significa che chiunque può essere sottoposto, in qualsiasi momento, a un test delle urine. Imponiamo ai pazienti ricoverati di evitare gli incontri con visitatori che fanno uso di sostanze. Da mesi, ormai, che nel caso dei giovanissimi notiamo che i primi a sparire e a ripresentarsi a disintossicazione conclusa sono proprio i papà». La sorpresa Altri genitori, quelli che non si defilano e accettano un percorso di cura assieme ai figli, raccontano le difficoltà agli psicologi, svelano debolezze. Come Francesco G., 48 anni, imprenditore di una piccola azienda nel Varesotto: «Mio figlio un giorno mi ha chiesto: ”Papà, ma tu la cocaina la prendi solo il sabato?”. Ero convinto che sapesse, che mi avesse visto, perché è stato molto sicuro e diretto. Gli ho risposto di sì, anche se non era proprio la verità. A quel punto lui ha detto che stava scherzando, ma io non potevo più rimangiarmi quello che gli avevo appena confessato. Il baratro però l’ho visto qualche sera più tardi, quando mio figlio è arrivato a casa dicendo che voleva provarla. Subito mi sono rifiutato, mi sono anche imposto, ma poi lui ha tirato fuori dalle tasche una busta. Ho visto la coca e a lei non ho saputo dire di no». Claudio, 19 anni «Se lui non smette non lo vedrò mai più» Ho preso la cocaina con mio padre più di una volta. Certo, la prima ”pista” che abbiamo tirato ci ha creato un po’ d’imbarazzo, ma poi, non appena la droga ha fatto effetto, né io né lui abbiamo sentito alcuna differenza: sniffare insieme era come farlo con gli amici». Claudio ha 19 anni e, da tre mesi, vive in una comunità vicino Roma. Sua madre, casalinga, la sorella studentessa all’università e il fratello maggiore, titolare di una piccola azienda, hanno scelto per lui una comunità della rete Saman, distante il più possibile dalla regione in cui abitano, per evitare qualsiasi incontro tra Claudio e la vecchia compagnia dell’istituto tecnico, quello che frequentava, in cui aveva incominciato a usare la droga anni prima. E per rompere ogni rapporto con il padre. Ricordi com’è andata? «Mio padre, imprenditore, stava sempre all’estero per lavoro: Belgio, Lussemburgo, Germania. Lo scorso inverno, per le feste, ho deciso di raggiungerlo. Ero appena diventato maggiorenne. E li ho scoperto che si faceva di coca». Ma tu ti drogavi già? «Sì, ma volevo staccare un po’. Stavo incominciando a rendermi conto che la cocaina si stava rubando le mie giornate. Non avevo più voglia di studiare, di andare a giocare a calcio. Pensavo solo alla droga e a come procurarmela». I tuoi genitori se n’erano accorti? «Sì. Mia madre e i miei fratelli sono esplosi, per la rabbia e la preoccupazione. Mio padre invece, a ripensarci, era come se stesse in un angolo e non partecipasse alla notizia di avere un figlio che si drogava. Non mi rimproverava e questo suo atteggiamento, in un primo momento, mi ha avvicinato: non mi sentivo giudicato da lui. Poi, però, ho capito». Cosa? «Che stava a distanza perché la coca la usava pure lui. L’ho scoperto lo scorso inverno. Vivendo insieme qualche giorno all’estero. Una sera, durante la cena, non faceva che entrare e uscire dal bagno. Si toccava il naso, insomma, faceva le cose tipiche di chi sniffa. E io l’ho subito inchiodato. A me non poteva certo mentire». L’ha fatto? «Per un po’, ma è stato inutile. Che usasse cocaina era evidente. Io gli ho chiesto dove la tenesse, lui mi ha mostrato una scatola in un armadio e quella sera stessa, là in Germania, l’abbiamo presa insieme». Soltanto quella volta? «No, diverse. Io sono entrato in una comunità, a Saman, per smettere. Ho cercato di convincere mio padre a venirci, ma lui dice che non riesce a farlo, non ha la forza, senza la cocaina non sa come affrontare i suoi clienti e la vita stessa».