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 2010  gennaio 04 Lunedì calendario

Una vita a caccia dei rapiti dal Nord - Suo padre era stato un eroe di guerra della Corea del Sud

Una vita a caccia dei rapiti dal Nord - Suo padre era stato un eroe di guerra della Corea del Sud. Nei giorni della pace, faceva il pescatore e comandava una barca. Si chiama Choi Won-mon, racconta suo figlio, seduto nel piccolo ufficio di Seul, con le pareti tappezzate di foto color seppia e sguardi perduti. Non sa più se è vivo o morto, ma continua a cercarlo da quando aveva 15 anni. Ha riportato a casa un po’ di connazionali, vite spezzate e uomini disperati. Lui no. Era sparito nell’estate 1967, mentre era in mare al largo della costa. Dissero che la sua goletta era affondata. Tre mesi dopo, però, vennero a sapere che era vivo. Era stato catturato dalla Corea del Nord: avevano liberato l’equipaggio, ma avevano trattenuto lui. Da allora tutti i ricordi di Choi Sung-yong, suo figlio, hanno il senso triste di una perdita. Choi dice che suo padre era un uomo riservato, e che era un bravo papà, aveva aiutato degli orfani e il giorno del suo compleanno gli aveva regalato un giradischi. Lo conserva ancora, nella sua camera da letto: è l’unica cosa che gli è rimasta. Da allora, da quell’autunno del 1967, Choi Sung-yong ha dedicato tutta la sua vita a cercare il babbo e a trovare le centinaia di dispersi sudcoreani sequestrati da agenti della Corea del Nord. Lo fa da questo minuscolo ufficio con le foto color seppia alle pareti, dove è andato a trovarlo Martin Fackler del «New York Times» per raccontare i suoi miracoli. «Finora», gli ha detto Choi, «il mio lavoro è stato una lotta solitaria». A Seul, il dramma delle persone scomparse nella Corea del Nord è un problema che divide il Paese e risveglia emozioni mai sopite. Agli inizi i governi militari trattavano quelle famiglie come sospetti comunisti. Negli anni seguenti i presidenti liberali avevano preferito ignorare questa tragedia collettiva, nella ricerca della riconciliazione col Nord. Solo adesso il presidente conservatore Lee Myung-bak ha adottato una linea più attenta. L’anno scorso hanno dato Choi Sung-yong una targa in cui si attesta che suo padre era un patriota. Il governo l’ha pure nominato consulente. Ma fino a oggi Choi ha dovuto sempre fare tutto da solo. Alla fine del 1990 è andato addirittura in Cina per cercare contatti con la Corea del Nord che gli permettessero di ritrovare suo padre. Non l’ha trovato e niente ha saputo di più di quel poco che già sapeva. Però ha cominciato un lavoro che ha riportato a casa sette persone, che erano state rapite dall’altra Corea. Ha costruito una sorta di ferrovia sotterranea, un percorso di complici ben pagati, di guide e di agenti segreti, che utilizza per riportare a casa i fuggitivi. Solo uno di loro, dopo essere rientrato a Seul, ha preferito ritornare al Nord, perché là ormai aveva messo su la sua nuova famiglia. Mister Choi ha fondato un’associazione, l’Abductees’ Family Union, che si batte per le famiglie di 505 civili che lui pensa siano stati rapiti. Questa lotta, dice, gli ha causato più di un problema: ha ricevuto minacce di morte dalla Corea del Nord, e adesso ha paura di viaggiare in Cina. Ma non smetterà, fino a quando non avrà ritrovato suo padre, vivo o morto. Molti dei connazionali spariti erano pescatori, come il babbo. Alcuni sono stati impiegati come braccianti, altri - quelli più istruiti - come spie. Uno di loro, Choi Wook-il, era stato catturato nel 1975, quando la sua barca era stata bloccata da una cannoniera della Corea del Nord. Era un pescatore di gamberetti, Choi Wook-il. Rimase nel Nord, lavorando in un’azienda agricola di mais, fino a tre anni fa quando, grazie a Choi Sung-yong e alla sua organizzazione, una notte fu condotto su un fiume ghiacciato che sfociava in Cina, dove venne liberato. Adesso ha 69 anni e vive con la moglie Yang Jeong-ja, di due anni più giovane, in un appartamento fornito dal governo nella città di Ansan, a sud di Seul. Sua moglie pensava che fosse morto ma un giorno Sung-yong le mostrò una lettera che Wook-il aveva scritto al fratello. Le fece vedere una sua foto e le disse che, se voleva, poteva riportarlo a casa. Lei non ci credette molto, ma accettò lo stesso, perché la speranza è l’ultima a morire. Qualche sera dopo suo marito sentì bussare alla porta, in un villaggio della Corea del Nord. Quando aprì, vide un tipo sconosciuto che gli fece uno strano discorso. «Diceva che lo mandava mia moglie, per portarmi in Cina», racconta oggi. Lui rifiutò, perché era convinto che fosse un tranello. Gli sbatté la porta in faccia. Ci vollero nove visite per convincerlo. Alla fine era ancora scettico, ma decise di provare. Una guida lo condusse in Cina e restò con lui fino al momento in cui non rientrò a Seul. Subito dopo il loro arrivo, sparì, all’improvviso. Gli è rimasta questa sensazione strana di un regalo della vita. La libertà insperata, la moglie che lo aspettava, e tutto il tempo sfuggito che era tornato nella sua casa, come se fosse rimasto ad attenderlo. E’ la stessa cosa che sogna Choi Sung-yong. Non ha mai smesso di crederci. Dice: «Mi batte ancora il cuore, ogni volta che chiedo di mio padre». Prima o poi capiterà anche a lui di ritrovare tutto il tempo che gli hanno portato via.