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 2010  gennaio 04 Lunedì calendario

Le crisi nel Golfo di Aden Gli Usa temono un patto del terrore: l’Onu agisca L’unione un anno fa tra le cellule terroristiche di Yemen e Arabia Saudita ha dato vita ad «Al Qaeda nella Penisola Arabica», il gruppo che ora turba i sonni ai capi dei servizi segreti occidentali

Le crisi nel Golfo di Aden Gli Usa temono un patto del terrore: l’Onu agisca L’unione un anno fa tra le cellule terroristiche di Yemen e Arabia Saudita ha dato vita ad «Al Qaeda nella Penisola Arabica», il gruppo che ora turba i sonni ai capi dei servizi segreti occidentali. Ma l’epoca delle «fusioni» non sembra finita nell’universo dei jihadisti e rischia di partorire una nuova entità, ancora più difficile da contrastare, che unisca i terroristi di base nello Yemen con quelli della vicina Somalia, per dar vita a una sorta di «Al Qaeda nel Golfo di Aden». I segnali sono già stati rilevati dagli esperti che analizzano il sottobosco dell’integralismo islamico tra Medio Oriente e Corno d’Africa. Oltre 200 mila rifugiati somali - ma la stima è prudente - si sono riversati in questi anni nello Yemen, per sfuggire al caos di quello che l’«Economist» ha di recente indicato come «il luogo peggiore del mondo». Al Qaeda ha pescato a piene mani in questa folla di diseredati, per reclutare forze fresche per la propria filiale yemenita. Ma l’organizzazione terrorista è assai attiva anche alla fonte, in Somalia, dove risulta in stretto contatto con i guerriglieri islamisti di Al Shabaab, che controllano vaste aree del Paese. «Il problema della Somalia si sta congiungendo con quello dello Yemen», afferma sul «New York Times» Magnus Ranstorp, un esperto di terrorismo svedese che collabora con il governo americano. Per l’amministrazione Obama, questo significa che limitarsi a colpire qualche santuario jihadista nello Yemen non basterà a impedire che si moltiplichino i casi di attentati come quello fallito a Natale, organizzato in un campo di addestramento yemenita. Washington e i suoi alleati ragionano invece in termini di sfida da affrontare nell’intero scenario regionale che va dall’Africa orientale all’Afghanistan: non a caso è l’area d’azione del Comando centrale del Pentagono (Centcom), il cui comandante David Petraeus ha appena visitato lo Yemen per definire le forme della collaborazione militare americana con Sana’a. Stati Uniti e Gran Bretagna proprio ieri hanno annunciato una serie di misure comuni per la lotta al terrorismo nel Golfo di Aden e una delle iniziative principali decise sarà un’azione di pressing di Barack Obama sul Consiglio di sicurezza dell’Onu, per ottenere un rafforzamento del contingente di peacekeeping internazionale in Somalia. Le preoccupazioni degli addetti ai lavori per la possibile saldatura di un asse del terrore Yemen-Somalia sono alimentate anche dai precedenti storici. La prima Al Qaeda, quella di Osama bin Laden, è nata reclutando reduci di una guerra, i mujaheddin sauditi che avevano combattuto in Afghanistan contro i sovietici. Allo stesso modo, l’organizzazione ora attiva nello Yemen secondo Ranstorp avrebbe assorbito buona parte dei circa 2.000 fondamentalisti yemeniti reduci da anni di combattimenti in Iraq, oltre ai guerriglieri in arrivo dalla Somalia. Bin Laden, inoltre, divenne davvero pericoloso dopo che il suo gruppo si fuse con la Jihad Islamica dell’egiziano Ayman al-Zawahiri, che si trasferì armi e bagagli dall’Egitto all’Afghanistan. Ora una fusione analoga è avvenuta tra terroristi sauditi e yemeniti e potrebbe allargarsi ai somali, per creare una miscela esplosiva che farebbe avverare la profezia di questi giorni di Joe Lieberman, presidente della commissione sicurezza del Senato americano: «L’Iraq era la guerra di ieri, l’Afghanistan è quella di oggi, e se non ci muoviamo per prevenirla, quella in Yemen sarà la guerra di domani». Anche nelle roccaforti jihadiste in Afghanistan e Pakistan, a quanto pare, l’area Yemen-Somalia viene vista come quella del futuro. Il fallito attentato di Natale e, in precedenza, il tentativo di uccidere il capo dell’antiterrorismo saudita, principe Muhammad bin Nayef - entrambi eseguiti con la tecnica delle «mutande esplosive» - per gli esperti d’intelligence avrebbero fatto salire le quotazioni della cellula yemenita agli occhi dei capi storici di Al Qaeda. Zawahiri aveva atteso fino alla primavera scorsa prima di approvare la nascita di «Al Qaeda nella Penisola Arabica»: un segnale che gli analisti militari di West Point, dove sorge il centro di ricerche sul terrorismo più importante del Pentagono, avevano letto come una mancanza di fiducia nelle capacità di Nasser al Wuhayshi, il capo dell’organizzazione. Ma i due attentati, sia pur falliti, avrebbero convinto i «vecchi» di Al Qaeda a prendere sul serio le nuove leve, che hanno tra l’altro creato una struttura di comando nella quale figurano almeno tre ex detenuti di Guantanamo. Le milizie islamiche che arrivano dal Sud Al Shabaab, che in arabo significa «gioventù», è un gruppo di insorti islamici attivo in Somalia, noto anche come Movimento di Resistenza Popolare nella Terra delle Due Migrazioni. Si dice che si finanzi anche con la pirateria nelle acque del Golfo di Aden e che nei suoi ranghi - che contano fra tremila e settemila uomini - non ci siano guerriglieri stranieri, perché gli obiettivi sono soltanto interni: combattere il debole governo e prendere il potere per imporre le regole della sharia. Attualmente controlla la maggior parte del Sud della Somalia e gran parte della capitale Mogadiscio. Il gruppo ha dichiarato la guerra santa contro «i nemici dell’Islam», compreso l’Onu e le ong occidentali che distribuiscono cibo in Somalia. Negli ultimi due anni ha ucciso 42 persone che lavoravano nel campo degli aiuti internazionali. I servizi di sicurezza occidentali considerano Al Shabaab un’organizzazione terrorista legata ad Al Qaeda.