Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  gennaio 03 Domenica calendario

Chi vuole gli oneri della «supermoneta» Il dollaro resterà la moneta di riserva mondiale, nella quale è investita la gran parte delle ricchezze degli Stati e con la quale si fanno i prezzi delle materie prime e delle transazioni internazionali? Fino al 2008 la domanda sarebbe parsa stravagante

Chi vuole gli oneri della «supermoneta» Il dollaro resterà la moneta di riserva mondiale, nella quale è investita la gran parte delle ricchezze degli Stati e con la quale si fanno i prezzi delle materie prime e delle transazioni internazionali? Fino al 2008 la domanda sarebbe parsa stravagante. Con la Grande Crisi, non più. A prospettare il superamento del dollaro è stato il banchiere centrale cinese che suggerisce la graduale adozione dei diritti speciali di prelievo, un paniere di valute gestito dal Fondo monetario internazionale (Zhou Xiachouan, Reform the International monetary system, People’s Bank of China, 23 marzo 2009). Un approccio più atlantico e conservatore viene ora da un centro nevralgico dell’America degli affari, la McKinsey, che si chiede se e quanto convenga avere la moneta di riserva (Richard Dobbs e altri, An exorbitant privilege? Implications of reserve currencies for competitiveness, McKinsey Global Institute, dicembre 2009). L’esorbitante privilegio era quello che, secondo Valery Giscard d’Estaing, il dollaro dava agli Usa già negli anni Sessanta. McKinsey ne misura la consistenza attuale. In un anno normale, quale potrebbe essere il periodo luglio 2007-giugno 2008, lo status speciale del dollaro porta all’economia americana un beneficio tra i 40 e i 70 miliardi, pari allo 0,3-0,5% del Prodotto interno lordo. Il conto comprende all’attivo 10 miliardi di dollari derivanti dal signoraggio esercitato su banconote e monete emesse per gli stranieri e 90 miliardi dal risparmio netto di interessi sul debito di Stato, famiglie e imprese, mentre al passivo c’è l’impatto negativo sulle esportazioni di un dollaro tenuto artificialmente più forte del vero: 30 miliardi per ogni 5% di variazione nel tasso di cambio. In un anno di crisi, quale quello che va dal luglio 2008 al giugno 2009, il vantaggio scema tra i 5 e i 25 miliardi. Chissà in seguito. Messa così, sembra quasi che l’antico privilegio si vada trasformando in un favore reso al resto del mondo. Ma la reazione negativa della Casa Bianca alla proposta cinese smentisce la lettura economicistica. E il perché balza subito all’occhio: finché il dollaro sarà moneta di riserva, gli Usa potranno stamparne quanti ne vogliono per sostenere l’economia o pagarsi una guerra. Certo, si legano sempre più ai propri creditori, ma la perdita di autonomia in questi casi è reciproca. E comunque, adesso, per sostenere le esportazioni, gli Usa rinunciano a farsi carico delle loro responsabilità di emittenti della moneta di riserva. Sarà Eurolandia ad assumersi quest’onere? Secondo McKinsey, l’euro avrà un peso crescente nelle riserve ufficiali degli Stati: dal 17% del 2000 arriverà al 35-45% nel 2020 con il dollaro che scenderà sotto la metà e il resto diviso tra yen e sterlina. Una diarchia, insomma, analoga a quella formata da dollaro e sterlina tra le due guerre mondiali. Ma la stessa Bce non pensa a un euro sostitutivo del dollaro. Nemmeno Eurolandia, insomma, si vuole sobbarcare gli oneri della supermoneta. Fin qui McKinsey. Resta una domanda: si pensa forse che Pechino, così piena di dollari, lasci giocare l’intera partita a Washington e Francoforte?