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 2010  gennaio 04 Lunedì calendario

4 articoli ABBIAMO SOLO PERSO UN ANNO Quale sarà l’economia del mondo dopo la crisi? Diversa, per due ragioni

4 articoli ABBIAMO SOLO PERSO UN ANNO Quale sarà l’economia del mondo dopo la crisi? Diversa, per due ragioni. Innanzitutto cambierà la distribuzione geografica dei consumi. Le famiglie americane, che per tanti anni sono state il motore della nostra crescita, spenderanno di meno: avendo subito perdite ingenti sulle loro case e sui loro investimenti, ricominceranno a risparmiare. Un po’ alla volta i loro consumi verranno sostituiti dai consumi di Paesi che continuano a crescere: India, Brasile, Cina, ma anche Paesi più piccoli, come Egitto, Cile e Polonia. Lo spostamento dei consumi ne muterà la composizione, cioè sarà differente il tipo di prodotti acquistati. Perché sono diversi i gusti, ma soprattutto perché i Paesi emergenti sono più poveri. Buone notizie per la Piaggio, meno per General Motors. Ci accorgeremo che sono cambiati anche i nostri concorrenti. La qualità di molti prodotti indiani e cinesi (anche nella moda, si veda ad esempio il sito web della Shanghai Tang) sta migliorando rapidamente, mentre i loro prezzi continuano ad essere straordinariamente bassi.  evidente che per sopravvivere sono necessarie profonde trasformazioni. Occorre adattare le produzioni ai mutamenti della domanda e spostarsi verso beni che ancora non subiscono la concorrenza di indiani e cinesi. Un esempio è la Carraro, azienda leader nei sistemi di trasmissione: ha subito una caduta verticale del proprio mercato tradizionale con riduzioni della domanda fino al 50%. Si è salvata anche grazie all’intuizione che alcuni anni fa le fece acquistare una piccola azienda di Imola specializzata in impianti che trasformano l’energia solare in corrente elettrica e che oggi rappresentano una quota significativa del fatturato del gruppo. L’immobilismo in attesa che il mondo torni ad essere quello di prima è una ricetta per il disastro. Così come lo è proteggere con la Cassa integrazione aziende e posti di lavoro che, finita la recessione, potrebbero trovarsi senza più un mercato. Bisogna proteggere i lavoratori, senza illuderli, aiutandoli invece a riqualificarsi per andare là dove il lavoro c’è. E accelerare su ricerca e innovazione. Il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, si appresta a varare una riforma degli ammortizzatori sociali che va in questa direzione. Il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, ha presentato al Parlamento una buona riforma dell’università. Entrambe si potevano fare un anno fa, quando il governo ripeteva che le riforme erano inutili, poiché il nostro era il migliore sistema al mondo: abbiamo perso un anno, ma recriminare non serve a nulla. Il Partito democratico si dice disposto a contribuire ad alcune riforme, ma solo dopo le elezioni regionali di marzo. Come ha detto il presidente della Repubblica il 31 dicembre, non possiamo permetterci di perdere altro tempo. Alcune riforme, a cominciare dal Welfare e dall’università, si possono chiudere entro febbraio, prima della campagna elettorale. Rispettare questi tempi è un’occasione per la segreteria Bersani del Pd di verificare se il governo intende davvero cambiare rotta. Francesco Giavazzi, Corriere della sera 3/1/2010 Fanno discutere le dichiarazioni 2009. Il 10% dei contribuenti paga oltre metà delle tasse I dati sui redditi, protestano sindacati e imprese Le dichiarazioni dei redditi 2009 rivelano che l’Italia è divisa a metà. Un terzo dei contribuenti ha il 65% dei redditi e uno su quattro guadagna meno di 15mila euro. Sui dati dell’Agenzia delle Entrate anticipati dal Corriere intervengono sindacati e imprese, che protestano: «Il fisco è ingiusto sul lavoro, serve una riforma». D’accordo il sottosegretario Paolo Bonaiuti: «Il sistema fiscale risale al 1971, serve una semplificazione». ROMA – Quasi la metà dei contribuenti italiani ha dichiarato nel 2008 un reddito inferiore ai 15 mila euro lordi, ma rispetto al 2007 il loro numero è diminuito di oltre il 6%. E sono sempre meno anche gli italiani che non arrivano a guadagnare 7.500 euro annui lordi, ricadendo nell’area di totale esenzione e che di conseguenza non pagano un euro di tasse: secondo le denunce dei redditi 2008 sono stati 10 milioni e 300 mila, un quarto dei contribuenti complessivi, ma un milione e 200 mila in meno rispetto alle dichiarazioni del 2007 (con un calo di quasi il 9%). In parallelo cresce la ricchezza, con un incremento sensibile dei contribuenti che nel 2008 hanno guadagnato tra i 15 e i 26 mila euro. I Paperoni d’Italia, invece, se la passano (relativamente, s’intende) un po’ peggio: oltre i 200 mila euro di imponibile si contavano 76.888 contribuenti, 600 in più rispetto al 2007, ma con un reddito medio decurtato di un bel po’: 377 mila euro a testa contro i 391 dell’anno precedente. Difficile concludere che la struttura dei redditi italiana sia equilibrata, anche se dalle dichiarazioni dei redditi 2008 presentate nel 2009, sulla base delle indicazioni provvisorie dell’Agenzia delle entrate, emerge un quadro un po’ migliore rispetto all’anno precedente. Il reddito medio degli italiani è salito da 18.540 a 19.110 euro. Un 3% in più che non ci farà fare grandi salti in avanti nella classifica dei salari medi nei Paesi Ocse, che ci vede al posto numero 23 tra i 30 Paesi più industrializzati del mondo, dietro anche alla Grecia e alla Spagna, e con stipendi inferiori del 17% rispetto alla media complessiva. Ma resta il fatto che in Italia, stando a quello che si confessa all’amministrazione finanziaria, e dunque al lordo dell’evasione fiscale, si assiste a un leggero ma progressivo spostamento dei contribuenti verso le fasce di reddito più alte. Anche se ci sono delle eccezioni tutt’altro che trascurabili. I contribuenti che nel 2008 hanno denunciato un reddito pari a zero, ad esempio, sono stati ben 305.890, quasi 25 mila in più rispetto al 2007. Nella fascia di reddito compresa tra zero e 15 mila euro lordi annui, l’Agenzia delle entrate ha censito finora (mancano 600 mila dichiarazioni da elaborare) 19 milioni 832 mila contribuenti, contro i 21milioni 122 mila che risultavano dalle denunce dell’anno precedente. Tra i 15 e i 29 mila euro di reddito, che corrisponde più o meno allo scaglione cui si applica l’aliquota Irpef del 27%, nel 2008 figuravano 14 milioni 927 mila italiani: il 36,2% dell’intera massa dei contribuenti, contro il 34,6% dell’anno precedente. All’interno di questa fascia si contano ben 7milioni 255 mila cittadini con un imponibile compreso tra 15 e 20 mila euro, ed altri 5 milioni e 781 mila che denunciano guadagni tra i 20 e i 26 mila euro. In quello che corrisponde a spanne allo scaglione Irpef superiore, collocato tra i 29 e i 55 mila euro e tassato con l’aliquota marginale al 38%, c’erano 4 milioni 751 mila italiani (l’11,5% della massa contro il 10,9 del 2007). Molto più sottili le fasce di reddito più elevate: in quella tra i 55 e i 75 mila euro (con l’aliquota Ire che sale al 41%) ci sono 730 mila contribuenti contro i 709 mila del 2007, ma rispetto al totale sono sempre l’1,7%. Oltre i 75 mila euro, dove il reddito è tassato al 43%, si contano 787 mila contribuenti, contro i 764 mila dell’anno precedente, l’1,9% del totale contro l’ 1,8% del 2007. I ricchi, almeno sulla carta, non sono tantissimi. Anche se sono proprio loro a produrre in Italia la maggior quantità di ricchezza. Quelli che guadagnano tra i 50 e i 75 mila euro l’anno sono il 2,5% del totale, ma portano a casa l’8% dei redditi complessivi. Così come a quell’1,9% dei contribuenti sopra la soglia dei 75 mila euro lordi annui corrisponde addirittura il 13,3% della ricchezza denunciata al fisco da tutti gli italiani, che nel 2008 è stata pari, sempre secondo i dati parziali dell’Agenzia delle entrate, a 783,9 miliardi di euro. Idealmente, i contribuenti italiani possono essere suddivisi in tre gruppi di eguale consistenza. Il primo terzo, dove l’imponibile non supera i 10 mila euro annui lordi, produce appena l’8,4% del reddito complessivo. Il secondo terzo, compreso nella fascia tra i 10 e i 20 mila euro di reddito, rappresenta il 26,4% della ricchezza dichiarata. Tutto il resto (65% dei redditi complessivi) appartiene all’ultimo terzo, quello che comprende i cittadini che guadagnano da 20 mila euro annui in su. Molto, in questa classifica, è destinato a cambiare passando dai redditi lordi a quelli netti, quindi dopo il passaggio della mannaia delle tasse. L’imposizione fiscale, infatti, colpisce in misura decisamente più forte le fasce di redditi alti emedio-alti. la cosiddetta progressività, che vede l’imposta aumentare più rapidamente dell’imponibile, prevista e tutelata dalla Costituzione. Anche se constatare che appena il 10% dei contribuenti italiani paga da solo oltre la metà di tutte le tasse incassate dal Tesoro è forse un argomento in più per chi spinge verso una nuova riforma fiscale. Mario Sensini, Corriere della Sera 3/1/2010 In otto anni il reddito reale è calato di 5 punti BRUXELLES – Gli ultimissimi dati diffusi dall’Eurostat, l’Istituto europeo di statistica, portano la data del primo gennaio 2010, 3 giorni fa. E dicono: in Italia continua a calare il potere d’acquisto dei redditi pro capite. Cala da anni, sempre di più. Colpa della crisi? Sicuramente sì, ma la crisi non spiega tutto. Perché altri Paesi europei mandano segnali diversi: i portafogli dei loro cittadini, pur colpiti dalla recessione, ne parano però gli urti più violenti. A confermarlo, è la cosiddetta statistica Pil-Pps: il prodotto interno lordo, Pil, calcolato su ogni abitante ed espresso in Pps o «potere d’acquisto standard», una valuta convenzionale che permette di confrontare economie diverse, omologando le differenze nei livelli dei prezzi. Fissato dunque a 100 il valore di riferimento del Pil pro capite espresso in Pps, nella media dei 27 Stati dell’Unione Europea, il contribuente italiano risulta aver compiuto questa parabola: nel 2001, il suo Pil-Pps era a quota 117,8; nel 2002, a 111,9; nel 2003, a 110,7; nel 2004, 106,7; nel 2005, a 104,9; nel 2006, a 104,2; nel 2007, a 103,5; nel 2008 (ultimo anno preso in considerazione dalla statistica), a quota 102. L’Eurostat ammonisce doverosamente: certi dati non sono comparabili perché la UE non aveva 27 stati, bensì qualcuno in meno. Ma tant’è: per gli italiani resta il fatto che in 8 anni, il loro potere d’acquisto si è indebolito di oltre 5 punti. Mentre la media del calo nei Paesi dell’Eurozona appare più contenuta: nel 109,1 nel 2008, 110 nel 2007, 110,3 nel 2006 , 113,5 nel 2001. E’ vero, peggio che al contribuente italiano è andata a quello francese, precipitato da quota 115,7 nel 2001 a quota 108 nel 2008 (ma sempre al di sopra del dato italiano). O al contribuente belga, sceso da 123,7 a 115,1. Però altri cittadini europei, si sono risparmiati certe montagne russe: i Germania, dal 2001 al 2008, il Pil-Pps è passato è passato da 116,6 a 115,6, in punto «solo» di pedaggio pagato dalla crisi; e negli ultimi due anni il calo è stato appena di due centesimi di punto. Vi sono poi altre nazioni, pur colpite dalla recessione, dove il potere d’acquisto resta più forte di quello italiano: Danimarca, 120,1 (121,3 nel 2007); Olanda, 134; Austria, 123,3; e natuarlmente (fuori dalla UE) Svizzera, 140,7 (140,8 nel 2007) e Norvegia, 191,2 (impennata a sorpresa dal 179,2 del 2007). Sulla buona salute del portafoglio, conta poi il peso delle tasse. E anche qui, gli aupici non sono inebrianti. Nel suo ultimo rapporto del 2009 sul fisco UE, la Commissione Europea annota:«solo uno fra i Paesi ad alta tassazione ha visto il suo peso fiscale aumentare ulteriormente rispetto ai livelli dell 2009: l’Italia". Luigi Offeddu, Corriere della Sera 3/1/2010 Gli stipendi lordi degli italiani sotto la media Ue del 32,3% Non solo tasse, pesano i contributi sociali. L’Ocse: buste paga al 23esimo posto ROMA – Non è solo un problema di tasse. vero che l’imposizione fiscale fa del suo meglio, ma se le buste paga degli italiani, che nel 2008 secondo i dati anticipati dal Corriere della Sera, hanno denunciato un reddito medio di 19.100 euro, sono tra le più basse in Europa e tra i Paesi industrializzati, è colpa anche dei salari lordi troppo bassi e dei contributi sociali molto alti che gravano sui lavoratori e sulle imprese. E un po’ anche dell’università che in Italia, a differenza di moltissimi altri Paesi, non rappresenta un investimento redditizio per ottenere salari più alti nella carriera lavorativa. Secondo le ultime classifiche dell’Ocse gli stipendi netti degli italiani sono al ventitreesimo posto nella classifica dei trenta Paesi più industrializzati che aderiscono all’organizzazione. E se si considera lo stipendio al lordo delle ritenute fiscali e dei contributi, la nostra classifica migliora solo di una posizione. A parità di potere d’acquisto, lo stipendio di un lavoratore italiano single senza figli è pari a 30.245 dollari, e nella graduatoria Ocse siamo davanti solo alla Repubblica Ceca, l’Ungheria, il Messico, la Nuova Zelanda, la Polonia, il Portogallo, la Slovacchia e la Turchia. E nella classifica che considera il salario netto, pari per un italiano a 21.374 dollari, ci supera pure la Nuova Zelanda. La nostra distanza dalla testa della classifica, che vede al primo posto per il salario netto la Corea (39.931 dollari), seguita da Regno Unito (38.147) e dalla Svizzera (36.063), è siderale. Ma siamo molto lontani anche dalla Germania (29.570 dollari) e dalla Francia (poco più di 26 mila). Per farla breve, basti considerare che i salari lordi italiani sono più bassi del 32,3% rispetto alla media dell’Europa a quindici. Naturalmente, siamo ben sotto la media dei 30 Paesi Ocse, con un 16% per cento abbondante in meno. Le differenze del salario tra gli italiani e i loro concittadini europei appaiono ancor più macroscopiche se si considerano i valori assoluti degli stipendi: 26.191 euro lordi per un lavoratore medio italiano, 32.826 per un francese, 43.942 per un tedesco e poco meno per un olandese. Solo spagnoli, greci e portoghesi, ma senza considerare l’inflazione, le tasse ed i carichi sociali previdenziali, sono dietro. E il peggio è che con il tempo, da noi, le cose stanno peggiorando. In vent’anni, secondo uno studio dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, il valore degli stipendi degli italiani rispetto al prodotto interno lordo è diminuito di quasi il 13%, contro una flessione media dell’8% registrata nei 19 Paesi più avanzati. I salari reali, secondo l’agenzia dell’Onu, considerati a parità di potere d’acquisto, sono crollati in Italia di quasi il 16% tra il 1988 ed il 2006. Il calo più forte, manco a dirlo, che si è registrato tra i primi undici Paesi industrializzati del mondo, superiore pure a quello della Spagna (-14,5%). Colpa delle tasse, ma non solo. Pesano, e tanto, anche i contributi sociali. In particolare quelli a carico dei datori di lavoro: nella classifica Ocse l’Italia è addirittura ventiseiesima, seguita solo da Svezia, Repubblica Ceca, Ungheria e Francia (dove però c’è una tassazione del lavoro più bassa). Fatta la somma, la pressione tributaria complessiva sulla busta paga media di un italiano è pari al 46,5% del costo del lavoro, ed è più alta solo in Germania, Belgio, Austria e Francia. Così l’Italia occupa la posizione numero 19 nella graduatoria del costo del lavoro: con un valore di 39,9 siamo quasi alla metà della Germania (61,6) e di gran lunga sotto la Francia (51,2). Anche se negli anni il nostro Paese non pare proprio che sia riuscito a sfruttare questo vantaggio competitivo. Sul banco degli imputati, allora, vanno pure le imprese ed il sistema dell’istruzione. E anche qui è l’Ocse ad illuminare con luce tetra la situazione del nostro Paese, uno dei pochi al mondo dove una laurea non garantisce affatto salari dignitosi e dove le imprese sembrano assai poco disposte a premiare la manodopera più qualificata. E le donne. Anche se sono dei geni. Tra il 1998 ed il 2004 in Italia il differenziale di stipendio tra un lavoratore laureato ed uno che ha fatto solo la scuola dell’obbligo, è diminuito del 6,2%, del 5% se si considerano i lavoratori con il diploma di scuola secondaria superiore. , ancora una volta, la flessione più consistente che si è registrata tra i 22 Paesi più industrializzati del mondo. Ma non è l’ultimo record negativo, perché a parità di livello di istruzione con gli uomini, le donne italiane sono quelle che guadagnano meno di tutte rispetto agli altri Paesi industrializzati del mondo. In media, il 50% in meno. riesce ad evadere o eludere. Il risultato è che la media della pressione fiscale è molto alta». Per questo’ spiega il ministro’ una riforma deve avere come obiettivo quello di abbassare le tasse a chi ne paga troppe e farle pagare a chi non le paga, ma mentre è facile abbassare le tasse a chi le paga è difficile farle pagare a chi non le paga». Una situazione «incastrata», la definisce. E di riforma fiscale è tornato a parlare anche il ministro al Welfare, Maurizio Sacconi ( nella foto sotto), osservando che «i tempi sono quelli medio-lunghi di una legge delega e dei successivi decreti delegati». In un’intervista a il ministro ha poi rassicurato sul tema degli ammortizzatori sociali: «La cassa integrazione sarà prorogata per tutte quelle situazioni di crisi nelle quali si intravede una soluzione positiva. I fondi ci sono: su 8 miliardi di euro stanziati per la cassa in deroga, ne abbiamo spesi finora meno di due». Mario Sensini, Corriere della Sera 4/1/2010