Fabio Pozzo, La Stampa 3/1/2010, 3 gennaio 2010
Un clic. Con un semplice gesto, l’accensione del monitor di un pc, percorriamo migliaia di miglia marine
Un clic. Con un semplice gesto, l’accensione del monitor di un pc, percorriamo migliaia di miglia marine. Idealmente, senza muoverci dal salotto di casa. Probabilmente, anzi quasi sicuramente, quello stesso schermo avrà fatto, prima di arrivare sugli scaffali del negozio dove lo abbiamo acquistato, mezzo giro del mondo. Sarà salpato, chissà quanto prima, da uno dei porti della Cina, o di Taiwan, dopo essere stato impilato insieme ad altri in uno scatolone metallico da un teu, l’unità di misura del container, ormai l’indiscusso protagonista del commercio internazionale del nostro tempo. Perchè ci si può infilare di tutto, ha dimensioni unificate in tutto il mondo, può viaggiare per mare strade e ferrovia, col vantaggio di accelerare le operazioni di carico/scarico, riducendo i tempi e abbassando i costi. E perché risponde meglio all’esigenza di un servizio door-to-door, dallo stabilimento al cliente, senza manipolazioni intermedie. Un box che a sua volta sarà stato stivato nel ventre o più probabilmente sul ponte di una gigantesca nave. Uno di quei «mostri» con una capacità di 10 mila teu che solcano i mari lungo le rotte transcontinentali. Ma non è finita. Lo stesso monitor, prima di giungere alla meta, sarà stato sbarcato in uno dei porti di stoccaggio del Vecchio Continente, un «hub», e quindi trasbordato o su un’altra nave più piccola, in gergo «feeder», oppure caricato su un treno o su un Tir, per proseguire il suo viaggio. Un lungo tragitto, che avrà dato lavoro, guadagno e anche qualche grattacapo a molti. A cominciare dalla costruzione dello stesso container, industria che è nelle mani dei cinesi, che da soli coprono più dell’80% della produzione globale. Un percorso che è comune a molti altri prodotti. Più dell’80% delle merci che invadono i nostri centri commerciali, le nostre case, viaggia infatti per mare. Singapore, il primo terminal globale, ha movimentato nel 2008 quasi 30 milioni di teu. Shanghai, 28 milioni. Hong Kong quasi 25 milioni. In Europa, Rotterdam guida la classifica con quasi 11 milioni di teu. Il principale «hub» italiano è Gioia Tauro, con 3,3 milioni di teu nel 2008, seguito da Genova, con 1,7 milioni e poi La Spezia, con 1,2 milioni. Un business che è in mano, per il 90%, a venti compagnie di navigazione. Certo, la crisi si è fatta sentire anche sulle rotte del container. Sono ancora sotto gli occhi di tutti le flotte di navi portacontainer ferme, in attesa di un nolo, nella rada dei principali porti, soprattutto del Far East, ma anche del Pireo. «Questo settore è quello che ha sofferto di più dalla contrazione dei consumi. Ha subito riduzioni spaventose e ci vorrà ancora tempo perché possa recuperare» dice Nicola Coccia, il presidente di Confitarma, la confederazione degli armatori italiani. Dietro il monitor del pc c’è davvero un mondo. Le navi, gli armatori, gli equipaggi, che danno lavoro agli spedizionieri, assicuratori, broker e una miriade di fornitori. E poi, i porti. Città nelle città, dove si muovono decine di figure diverse, dal terminalista, che ha in gestione le banchine, al «camallo», il portuale che movimenta nel verso senso della parola le merci. E non solo: i piloti che guidano la nave in porto, i rimorchiatori, gli ormeggiatori, i barcaioli che trasportano gli equipaggi dalla nave in rada a terra. Tutti gli addetti che si occupano della sicurezza, dello smaltimento rifiuti, delle forniture di bordo. Un mondo che, se si guarda il bicchiere mezzo pieno, non potrà che risalire la china. «La popolazione mondiale aumenterà ancora, almeno per i prossimi vent’anni, e i consumi saliranno per forza» prevede Coccia. Certo, con equilibri diversi. La mappa dei porti cambierà. E, purtroppo, vedrà l’Italia perdente. «Parliamo di piattaforma del Mediterraneo, ma finora abbiamo fatto poco - dice ancora Coccia. Già oggi, in un periodo di crisi in cui si guarda a risparmiare il centesimo sulle tariffe, i grandi hub non sono italiani. Ma non lo saranno nemmeno con la ripresa, perché pagheranno lo scotto di infrastrutture e politiche di sistema insufficienti e costi più alti».