Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  gennaio 02 Sabato calendario

PALERMO’

Con il «regalo di Natale» elargito a Giuseppe Graviano, sembrano riesplodere le stesse polemiche del marzo 2001, quando l’isolamento fu sospeso perfino per Totò Riina, il gran capo dei Corleonesi. Si scoprì allora che quasi tutti i padrini di Cosa Nostra s’erano già scrollati questa misura aggiuntiva al regime duro del «41 bis». Come Leoluca Bagarella, il sanguinario cognato di Riina. Come Nitto Santapaola, il boss di Catania. Come Pippo Calò, condannato per la strage del treno 904. Come i Madonia o i Ganci, coinvolti nelle stragi del ”92. Tutti rimasti inchiodati ai rigori del «carcere duro», ma dopo i primi tre anni non a quella pena accessoria e «a tempo» prevista insieme all’ergastolo per reati particolarmente gravi.

Così, dei 645 detenuti al «41 bis» restano solo una decina i boss che durante le previste quattro ore d’aria non possono avere contatti con altri carcerati. Dati aggiornati ai primi di dicembre quando il ministro Angelino Alfano, firmando l’ultimo «carcere duro» per Gianni Nicchi subito dopo l’arresto del più giovane capomafia di Cosa Nostra, ha fatto notare il suo record: «Ho disposto 168 provvedimenti in 580 giorni di governo».

Ovviamente bisogna poi vedere come tutto viene attuato nelle carceri. E tanti dubbi si posero nell’estate del 1997 quando si scoprì che proprio le mogli dei famigerati fratelli di Brancaccio, Giuseppe e Filippo Graviano, avevano partorito due bimbi in una clinica di Nizza, a distanza di un mese l’una dall’altra, nonostante imariti fossero sottoposti da oltre due anni al carcere duro. Si aprì un’inchiesta ipotizzando una fecondazione in provetta realizzata illegalmente, grazie a un avvocato compiacente.

La misura dell’isolamento resta comunque la più temuta dagli stragisti di casa nostra, insieme con l’obbligo di vedere i parenti una volta al mese solo attraverso un vetro blindato. Una norma introdotta e dimenticata con l’articolo 41 bis della legge del 26 luglio 1975, quando l’apparato antimafia non faceva tanta paura alla mafia visto che, stando ad alcuni pentiti, proprio quell’anno sarebbe stato raggiunto un inconfessabile accordo sotterraneo fra avvocati di mafia e vertici della magistratura per insabbiare perfino le inchieste sulle associazioni a delinquere.

Poi, la svolta culminata nelle sberle giudiziarie di Falcone e Borsellino. Fino alla reazione, alle grandi stragi. E fu allora, nella brutta estate del ”92, dopo Capaci e via D’Amelio, che lo Stato si ricordò di quel 41 bis fino ad allora sostanzialmente mai applicato.

Sezioni separate, posta censurata, colloqui dietro i vetri, al massimo quattro ore al giorno di socialità in gruppi di cinque persone. Questo il protocollo del 41 bis che diventa una sofferenza ancora più grande se le ore d’aria in cunicoli stretti e lunghi si passano senza vedere nessuno. Appunto, la misura aggiuntiva, l’isolamento totale che prosegue in celle dove è vietato l’uso di radio a modulazione di frequenza, registratori o lettori di cd. Quasi una vita vegetale, fatta eccezione per le «attività di osservazione e trattamento» previste dall’ordinamento penitenziario. Perché anche i più pericolosi, se vogliono, «possono richiedere colloquio con gli operatori» e partecipare ad attività utili alla «realizzazione della personalità» e alla «rieducazione». Ma non hanno mai mostrato interesse a questo tipo di attività personaggi come Riina.

Una delle ragioni per cui l’isolamento viene considerato «a tempo» sta nelle censure che rischiano di arrivare dalla Consulta e dall’Unione europea. Anche perché non manca un’area politica dubbiosa sulla misura e sul rigore dell’intero impianto del 41 bis. il caso dei radicali che hanno puntato il dito contro questa «tortura», come l’ha chiamata Marco Pannella, e come l’hanno descritta in un libro inchiesta Sergio D’Elia e Maurizio Turco. Il primo dell’associazione «Nessuno tocchi Caino», il secondo radicale e deputato Pd, qualche anno fa piombato nel carcere di Opera a Milano, faccia a faccia con Riina che gli consegnò una frase sibillina: «Dica a Roma che non parlo». Messaggio da qualcuno collegato alle confidenze fatte dallo stesso Riina nel 2001 appena finito l’isolamento, pranzando con un detenuto: «Io sono il parafulmine d’Italia, ma io, meschino, ho sempre travagliato, la vera mafia sta a Roma...».

Echeggiano così i messaggi oltre le mura, alimentando polemiche su quei 645, a volte guardati addirittura con invidia dentro le carceri, come diceva ieri Lino Buscemi, direttore dell’Ufficio del Garante dei diritti del detenuto in Sicilia, dopo una visita all’Ucciardone: «Forse è meglio stare da soli, anziché in dodici con un gabinetto alla turca. Perché la vera tortura è il sovraffollamento».