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 2010  gennaio 02 Sabato calendario

Nabil Youssef

• Il Cairo (Egitto) 1972. Fotografo • «Sembrano fotogrammi più che fotografie, quelle di Youssef Nabil. Fermi immagine di film mai girati. Di scene ambientate all’ingresso di un cinema, nella camera di un albergo, dentro musei e scorci di paesaggi deserti. [...] un artista giovane la cui formazione incrocia l’oriente con l’occidente. Rimandano ai ritratti glamour di David LaChapelle, frequentato tra il 1993 e il ’94 a New York, quelli che Nabil ha scattato a star come David Lynch, Zaha Hadid e Omar Sharif. [...] si immortala assorto dentro sfondi naturali che sono di volta in volta Istanbul, Beverly Hills, la Sardegna. Agli Uffizi, nella sala di Botticelli, Nabil riposa davanti alla Primavera. Se i suoi miti vengono dall’ovest, a denunciare le origini dell’artista contribuiscono i ritocchi dipinti a mano su ogni singola immagine. Il risultato finale richiama le colorate foto di famiglia che hanno fatto a lungo parte della tradizione egiziana» (“la Repubblica” 2/1/2010) • «[...] dipinge: lo fa direttamente sulla fotografia, scegliendo i toni e le sfumature. “In questo modo, riesco a mantenere il senso del tempo, mi piace che tutto sia antico, che abbia una storia da raccontare, un passato”. Il suo sguardo è comunicativo e vivace, esattamente come quello dei modelli e modelle che sceglie per i suoi scatti. “Non fotografo mai a caso, devo sempre avere una relazione intima con il soggetto”. Il risultato di questo intrecciarsi di emozioni è subito evidente: un’artista come l’inglese Tracey Emin, bad girl delmondo anglosassone, con una vita alle spalle molto difficile da digerire [...] è còlta in tutta la sua espressione imbronciata da bambina, mentre l’iraniana Shirin Neshat, con il suo kajal nero a segnarle occhi scurissimi e un atteggiamento del corpo “timido”, quasi sfugge al voyeurismo dello spettatore, defilandosi dal centro della foto e negando la frontalità dello scatto. Quelle di Nabil sono tutte stampe ai sali d’argento (ricolorate una per una), preziosi ritratti di un’umanità che rischia di evaporare per fragilità. [...] “Quello della morte è un sentimento che ho da quando sono bambino. Sembra strano dirlo,ma ci penso spesso... La prima volta è accaduto mentre vedevo un film con mia madre. Le ho chiesto: ‘Dove sono ora quegli attori?’. E mia madre: ‘Sono morti’. Avevo forse cinque anni e mi colpì moltissimo che persone così belle e giovani in quel preciso momento non esistessero più. Sono cresciuto guardando la tv egiziana e l’ho sempre amata”. Il divismo e il suo “allure” diventano per l’artista qualcos’altro, quasi un elisir d’eternità (“quando fotografo le persone che amo, non mi accorgo neanche delle loro rughe”, confessa l’autore). Il gioco della ritrattistica in posa è iniziato nel 1992. Fu quasi per scherzo. Youssef studiava all’università letteratura francese ma la fotografia lo attirava come una calamita, così chiese ad alcuni amici di interpretare dei piccoli ruoli. Si vestirono, si misero seduti o in piedi davanti all’obiettivo, seguendo le sue indicazioni. Nabil ha scattato, poi ha dipinto un “velo temporale” sopra quei volti. Ed è accaduto il miracolo: nonostante le perplessità dei suoi genitori rispetto al nuovo mestiere, sono arrivati i clienti. È successo tutto in fretta, “mi sono sorpreso io per primo”, dice. Un giorno al Cairo è arrivato un americano, ha chiesto a Nabil dove si potessero trovare delle pellicole in Egitto e lui l’ha aiutato a reperire il materiale. Quell’americano era David LaChapelle (l’artista lavorerà nel suo studio a New York, nel biennio del 1993-94). Nella costellazione dei viaggi entra anche Parigi, poi ci sono i ritorni nostalgici e infine, il trasferimento negli States. “Ho lasciato l’Egitto, mi mancava la mia famiglia e tutto quel paese... Quando sono tornato ho scoperto che non era cambiato nulla, era come se fossi stato lì il giorno prima”. Padre metà greco e metà libanese, un’infanzia da cristiano poi tramutata in un’adolescenza da musulmano, Nabil si diverte a raccontare di aver festeggiato sempre sia il Natale che il Ramadam. Per questo, forse, riesce con facilità a entrare e uscire dagli universi interiori di chi ritrae. Capta sentimenti differenti da esistenze lontane e profondamente diverse, accumunate da un futuro di sparizione (la morte che lo ossessiona). La memoria, la storia che sedimenta e si fa “narrazione”, è qualcosa che ognuno di noi si porta dentro: averlo capito, ha significato per Youssef Nabil entrare in un’altra dimensione, quella del ricordo “solidificato”, dell’identità ritrovata per scelta, della ritrattistica d’amore. Perché i soggetti del fotografo sono sempre corpi emotivi, desiderabili, mai neutrali. La potenza delle sue immagini è proprio nell’attrazione che sprigionano, una forza magnetica che crea in chi osserva un certo smarrimento» (Arianna Di Genova, “il manifesto” 14/4/2009).