Alberto Negri, Il Sole-24 Ore 31/12/2009;, 31 dicembre 2009
I RICCHI E COLTI SOLDATI DELLA JIHAD
La seconda generazione di al-Qaeda sembra avere due cose in comune: studia nei migliori college del mondo e ha trovato nello Yemen il nuovo santuario della guerra santa contro l’occidente e i regimi arabi alleati con gli Stati Uniti.
Umar Farouk Abdulmutallab, l’attentatore del volo Amsterdam- Detroit, figlio di un banchiere nigeriano, era iscritto, per la non modica retta di 25mila dollari l’anno, al corso di ingegneria dell’University College di Londra dove è venuto in contatto, tra un viaggio e l’altro nello Yemen, con i "Muslim reborn", i musulmani rinati, i figli degli emigrati dal mondo islamico, le nuove leve del radicalismo islamico.
Anwar al Awlaki, l’ispiratore di Farouk e del maggiore Nidal Malik Hassan, autore della strage di Fort Hood del novembre scorso, è un cittadino americano, nato in New Mexico nel ’71, laureato in ingegneria meccanica nel Colorado, e poi asceso alla carica di Imam della moschea di San Diego prima di trovare rifugio nell’Hadramaut, l’affascinante regione dei grattacieli nel deserto yemenita, più famosa ormai per essere la patria d’origine della famiglia Bin Laden che per i lasciti dell’antica civiltà dei Sabei.
La loro vicenda conferma che militanti e ideologi del radicalismo islamico e di al-Qaeda provengono con assidua frequenza da famiglie della borghesia musulmana più agiata, in molti casi assai integrate nel tessuto di quelle società occidentali che vogliono colpire. Sono coloro che hanno l’accesso più diretto e facilitato agli strumenti materiali e culturali della globalizzazione, passando dai più esclusivi college americani o britannici ai corsi della Jihad nelle province più remote dello Yemen o del Pakistan. Ma sono anche quelli che in maniera forse più eclatante vivono una lacerazione angosciosa: la condizione esistenziale dell’individuo nella società occidentale e la ricerca di un’identità forte nelle origini musulmane, in un mondo percepito sotto attacco da parte delle superpotenze.
Anwar al Awlaki, che non sarebbe affatto rimasto ucciso nel raid aereo del 24 dicembre contro le basi di al-Qaeda a Shabwa, è un quarantenne dall’aria ascetica e con una folta barba, descritto come un oratore eloquente e forbito: un ”Imam elettronico” molto efficace, perché sono state le sue pagine sul web e la corrispondenza via mail con l’Occidente ad attirare sia Farouk che il maggiore Hassan.
Le biografie di questi personaggi, in molti casi assai simile a quella degli attentatori dell’11 settembre 2001 e delle stragi di Londra del 2005, sembrano smentire, almeno in parte, che la rabbia dei nuovi musulmani della Jihad derivi da sentimenti di emarginazione sociale o da condizioni di miseria e ignoranza.
Ma le vicende di questi nuovi terroristi, che devono far riflettere sugli stereotipi spesso attribuiti al mondo musulmano radicale, sono una parte della storia. L’altra, oggi, riguarda lo Yemen, dove si gioca una partita complessa per la sopravvivenza di uno stato che rischia il fallimento come la vicina Somalia. Qui, secondo indiscrizioni del Pentagono riportate da Cnn, gli americani si preparano a condurre raid aerei e con le forze speciali, operazioni che gli Stati Uniti hanno già condotto senza renderle ufficiali per non mettere in difficoltà il presidente Abdullah Saleh.
Al-Qaeda in Yemen non è una novità. Sono le manipolazioni di quanto avviene sul terreno che cambiano continuamente da un fronte all’altro della crisi. Il presidente Saleh ha regolarmente utilizzato i wahabiti yemeniti, finanziati dall’Arabia Saudita, e gli elementi di al-Qaeda, per sconfiggere i suoi avversari, prima i comunisti saparatisti del sud, poi gli sciiti zayditi del gruppo Huthi a nord.
La notizia riportata ieri dalle agenzie di stampa secondo cui l’esercito sta attaccando basi di al-Qaeda nel nord, a Saada e Harf Sufyan, appare destituita da ogni fondamento logico: qui agisce la guerriglia sciita e basta. Questa non è la guerra che interessa direttamente gli Stati Uniti ma l’Arabia Saudita, impegnata al confine con l’aviazione e le truppe.
vero invece che i giovani yemeniti, al 50% disoccupati e nel pieno di una crisi economica profonda, sono diventati vittime di un’altra politica saudita fallimentare: l’esportazione della dottrina islamica sunnita. Non ci si dovrebbe meravigliare del fatto che con la propagazione di nuove madrasse wahabite nello Yemen il numero di jihadisti, disposto a seguire o a proteggere alQaeda, sia cresciuto in maniera esponenziale.
questo uno dei motivi, insieme al mosaico tribale, che ha fatto dello Yemen un nuovo santuario di islamisti, attirando i transfughi di Iraq, Afghanistan, Pakistan, e i "musulmani rinati" dall’occidente come l’imam Awlaki e il giovane nigeriano Farouk. Molti jihadisti, insieme a un milione di profughi, sono arrivati anche dalla Somalia - dove imperversano le milizie islamiche degli Shebab - attraverso lo Stretto del petrolio e dei pirati dei Bab el Mandeb.
Un importante detto di Maomento afferma: «Se vi è minaccia di disordini, rifugiati nello Yemen». Maometto naturalmente si riferiva al prospero e civile Yemen del settimo secolo, oggi meta dei nuovi profeti della guerra santa. E ora, dopo avere sprecato miliardi di dollari in guerre forse non necessarie e impossibili da vincere, per gli Stati Uniti si apre un nuovo fronte con due volti: uno, più scontato, nella penisola arabica, l’altro, forse più inquietante e sfuggente, tra i figli di una borghesia musulmana travolti dal male di vivere tra l’Occidente e la Jihad.