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 2009  dicembre 31 Giovedì calendario

Cavour. "Quel Garibaldi è davvero un galantuomo" di Lucio Villari per Repubblica - Si parla già, distrattamente, sui giornali, di Cavour e dei duecento anni della sua nascita che si confondono con i successivi centocinquanta di un´altra nascita, l´Italia unita, con i centoquaranta di Roma liberata dal potere temporale della Chiesa, con i centocinquanta della spedizione dei Mille e con chissà quante altre date storiche che, come degli intrusi, annoiano e disturbano le schiere di italiani che della storia non sanno che farsene

Cavour. "Quel Garibaldi è davvero un galantuomo" di Lucio Villari per Repubblica - Si parla già, distrattamente, sui giornali, di Cavour e dei duecento anni della sua nascita che si confondono con i successivi centocinquanta di un´altra nascita, l´Italia unita, con i centoquaranta di Roma liberata dal potere temporale della Chiesa, con i centocinquanta della spedizione dei Mille e con chissà quante altre date storiche che, come degli intrusi, annoiano e disturbano le schiere di italiani che della storia non sanno che farsene. Il disinteresse si legge anzitutto sul volto e nei silenzi di molti politici di ogni schieramento, anche se i maggiori partiti italiani si definiscono "della libertà", oppure "democratico" (termini di chiara derivazione risorgimentale). Cavour, in verità, non si sarebbe meravigliato di questo scarso interesse, sul quale molti giornali tacciono, perché quando cominciò la carriera politica lo fece da giornalista e fondatore di giornali (uno ebbe un titolo profetico Il Risorgimento e il primo numero apparve il 15 novembre 1847) e in un tempo che ha forti analogie con il tempo politico attuale dell´Italia. Ma che fin dal primo numero del Risorgimento il direttore Cavour chiedesse riforme, diritti civili e politici e Costituzioni non soltanto per il suo Piemonte (e il suo re, Carlo Alberto, comunicò subito il "desiderio di farlo arrestare") ma anche per il regno borbonico delle Due Sicilie, dovrebbe far riflettere qualche giornalista di oggi che accoglie senza battere ciglio le amenità e le improvvisazioni storiografiche di qualche accreditato dirigente della Lega su Cavour e su quella drammatica ed esaltante vicenda che portò all´unità d´Italia. E dovrebbe far riflettere anche il fatto che il secondo numero del Risorgimento fu bruciato a Genova da gruppi democratici che non capirono l´appello cavouriano alle riforme del regno borbonico ma i cui sentimenti furono compresi immediatamente da Cavour («per mezzo della stampa preparare gli animi ad accettare una ben regolata libertà politica») se, nei primi giorni del 1848, appoggiò sul giornale le proteste democratiche dei genovesi contro i gesuiti e le loro trame reazionarie. Insomma, si tratta di una storia seria e complessa che proprio i giornali, e gli altri mezzi di informazione, farebbero bene a non confondere con le semplici celebrazioni che gli anniversari e le scadenze comporteranno. Ebbene, i duecento anni di Cavour (nacque il 10 agosto 1810 – quando il Piemonte era una provincia dell´impero napoleonico – ed ebbe per madrina proprio Paolina Borghese, sorella di Napoleone e per padrino il marito Camillo, che gli diede il nome) sono l´occasione migliore per entrare nell´officina dell´unità d´Italia. A cominciare, come è ovvio, dai documenti e dai fatti. Gli ultimi mesi di vita di Cavour e i primi cento giorni dell´Italia unita attraverso lettere, telegrammi, dispacci raccolti nell´ultimo volume dei Carteggi del conte di Cavour (Epistolario. 1861, 3 tomi di p. XXXII-1304, Leo S. Olschki Editore, euro 150). I giorni, le ore che preparano e seguono la nascita dell´Italia unita, cioè il momento più febbrile, più atteso e decisivo della nostra storia nazionale, quando il Risorgimento è al culmine, sono qui raccontati nel modo vivo e immediato di un diario dell´Italia che nasce. Ma sono anche i giorni che porteranno allo stremo il conte di Cavour. Sarà stroncato poco tempo dopo la proclamazione dell´unità d´Italia a cinquantuno anni, il 6 giugno 1861. Entriamo subito nella umanità di quest´uomo invece che parlarne come di una lontana icona della storia e di un gelido monumento di bronzo (ce ne sono sparsi nelle piazze d´Italia, ma nessun passante vi leva più lo sguardo). Un primo sintomo del malore fu nella notte del 29 maggio e Cavour ne fece subito la diagnosi: apoplessia. probabile che fosse una grave crisi di ipertensione, ma la febbre alternante che lo aggredì fa pensare anche a un concomitante attacco di malaria. Fu una settimana di malesseri di ogni tipo che si tentò di contrastare con continui salassi, voluti da Cavour, e con applicazioni di ghiaccio e senapismi. Infine il medico ricorse al chinino. Questa preziosa medicina si somministrava in forma liquida ed era un amarissimo solfato di china. Forse lo avrebbe salvato, ma l´ammalato la rifiutò con disgusto. In un clima di ansia crescente intorno a lui Cavour resisteva alla malattia, lucido e angosciato di essere inchiodato al letto quando la sua presenza era più che mai necessaria al governo e in parlamento. I primi giorni tentò infatti di lavorare con i segretari Nigra e Artom, ed ebbe anche la visita di Bianca Ronzani, la sua giovane compagna, gentile, segreta e da lui molto amata. Spesso però si sentiva privo di forze: «La testa mi si confonde e ho bisogno di tutte le mie facoltà...». Si avvicinava la fine. Migliaia di torinesi muti e commossi sostavano per strada e fin dentro le scale dell´abitazione in attesa di qualche buona notizia. Che non giunse mai. Il racconto epistolare di questi tre volumi che comincia il 1 gennaio 1861 termina infatti il 5 giugno. L´ultimo documento è un telegramma privato trasmesso da Parigi alle 3 del pomeriggio di quel giorno e giunto un´ora e mezza dopo. Era dell´attrice Adelaide Ristori. Aveva saputo del grave malore che aveva colpito il suo amico: «Très inquiets sur votre santé, nous vu prions de nous faire savoir télégraphicament de vos nouvelles». La mattina dopo, alle 7, Cavour era morto. Spettò al ministro dell´interno Marco Minghetti dare la notizia all´Italia e al mondo. In un dispaccio al nostro ambasciatore a Parigi scrisse: «Rassicurate la Francia e l´Europa che la politica di Cavour sarà continuata e che il Governo non transigerà affatto con la rivoluzione...». Queste parole vanno spiegate perché sono il filo rosso dell´epistolario cavouriano di quei mesi. I due grandi temi che sono qui documentati sono la proclamazione dell´unità di Italia con la riunione del Parlamento il 18 febbraio e la successiva proclamazione, il 17 marzo, di Vittorio Emanuele re d´Italia e la necessità del riconoscimento diplomatico e politico internazionale del nuovo Stato. L´altro tema, non meno importante, era che con la morte di Cavour sembrava allontanarsi per sempre la soluzione pacifica della questione romana, cioè della affermazione, di fatto e di diritto, della separazione tra Stato e Chiesa che Cavour aveva immaginato possibile secondo il principio "libera Chiesa in libero Stato" che Pio IX e i clericali rifiutavano come idea del demonio. Era questa protervia e cecità della Chiesa ufficiale a suggerire all´imperatore Napoleone III, che pure nel 1859 aveva aiutato Cavour nella seconda guerra d´indipendenza, a negare a lui e all´Italia risorta il riconoscimento diplomatico. Da febbraio Cavour era tormentato da questo diniego dell´imperatore cattolico che travestiva il conformismo dei suoi sostenitori clericali con la preoccupazione che l´Italia unita cadesse in mano dei democratici e dei rivoluzionari garibaldini. Era una pura invenzione (infatti l´Inghilterra e gli Stati Uniti riconobbero immediatamente l´Italia unita) e Cavour anche sul letto di morte tenne a smentirla. Ecco la testimonianza diretta del nipote William de la Rive che raccolse al suo capezzale queste lucide parole: «Garibaldi è un galantuomo. Io non ho nulla contro di lui. Vuole andare a Roma e a Venezia: io pure lo voglio; nessuno ha più fretta di noi. In quanto all´Istria e al Trentino, è un´altra cosa. Noi abbiamo fatto abbastanza, noialtri: abbiamo fatto l´Italia, sì, l´Italia, e la cosa va». De la Rive pubblicò queste parole nel volume Le comte de Cavour. Récits et souvenirs, apparso a Parigi pochi mesi dopo la morte dello zio, nel 1862. Cavour, che aveva avuto serie preoccupazioni per le iniziative di Garibaldi del 1860 e ad aprile si era scontrato con lui alla Camera, sapeva come stavano veramente le cose. Non c´era nessun allarme rivoluzionario in Italia, e questo ricco epistolario ne dà la conferma in "tempo reale". Vi è in proposito una importante e preziosa lettera di Garibaldi a Cavour del 18 maggio 1861 (sulla vicenda della lettera sarà interessante ritornare) nella quale oltre a dare al presidente del consiglio un sostegno politico e morale circa l´atteggiamento retrivo di Napoleone III («che la vuole fare da padrone»), Garibaldi scriveva: «Fidente nelle di lei capacità superiori e ferma volontà di fare il bene della patria, io aspetterò la fausta voce che mi chiami una volta ancora sui campi di battaglia». E, ancora, un giudizio politico: «L´Italia rappresenta, oggi, le aspirazioni della nazionalità del mondo, e lei regge l´Italia. (...) Poi, lo supplico di credermi, signor Conte, l´Italia e chi la regge devono avere amici dovunque, ma temer nessuno!». Ma oltre questi documenti, quante scoperte e quanti inediti in una raccolta che potrebbe essere utilmente sfogliata da coloro che, nell´imminenza dei prossimi anniversari, oltre a preoccuparsi di dimenticare, sorridendo, il Risorgimento o di farlo "revisionare" da aspiranti storici, vorranno anche comprendere come l´Italia è nata nella primavera del 1861.