Maurizio Assalto, La Stampa 29/12/2009, 29 dicembre 2009
A volte ritornano di Maurizio Assalto per La Stampa - Sul teschio venuto alla luce nel 1993 da un sepolcreto di età tardo-antica a Casalecchio di Reno appare un macabro ghigno grottesco, che negli estremi istanti di vita doveva essere stato una smorfia di disperazione; al di sotto, le lunghe ossa delle falangi sono protese verso le clavicole, nel verosimile tentativo di allentare la stretta di un cappio; del piede destro non si è trovata traccia, mentre il sinistro giace vicino alla spalla destra: tutte queste ossa erano state insieme nel corpo di un uomo tra i 35 e i 50 anni, morto di morte violenta intorno al V secolo d
A volte ritornano di Maurizio Assalto per La Stampa - Sul teschio venuto alla luce nel 1993 da un sepolcreto di età tardo-antica a Casalecchio di Reno appare un macabro ghigno grottesco, che negli estremi istanti di vita doveva essere stato una smorfia di disperazione; al di sotto, le lunghe ossa delle falangi sono protese verso le clavicole, nel verosimile tentativo di allentare la stretta di un cappio; del piede destro non si è trovata traccia, mentre il sinistro giace vicino alla spalla destra: tutte queste ossa erano state insieme nel corpo di un uomo tra i 35 e i 50 anni, morto di morte violenta intorno al V secolo d.C. La giovane donna vissuta all’incirca 400 anni prima, riemersa alla Stazione Centrale di Bologna durante i lavori per la Tav, presenta invece il cranio innaturalmente piegato su una spalla, con un grosso chiodo di ferro infisso nella calotta, diverse fratture alle vertebre cervicali e a una scapola, i piedi staccati e disposti accanto alle gambe. Mentre assomiglia a un puzzle lo scheletro di un altro individuo ritrovato a Casalecchio: piede sinistro sopra la spalla destra, piede destro vicino al corrispondente femore, cranio incastrato tra le tibie. Di quali colpe dovevano essersi macchiate queste persone, per meritare un simile trattamento da vive e spesso, ancor più, da morte? Molte delle mutilazioni risultano infatti inferte direttamente sul cadavere, a volte anche in avanzata decomposizione. Sono i «cold case» degli archeologi, non però insolubili, e non così rari. «Negli scavi di emergenza che facciamo da queste parti, nel Bolognese e nel Modenese, se ne trova almeno uno ogni anno. Anche se poi, nella fretta del momento, vengono messi da parte e dimenticati», dice Luca Cesari, tra gli organizzatori di una piccola evocativa mostra, aperta fino al 21 febbraio al Museo Civico Archeologico di Castelfranco Emilia, che raccoglie una decina di esempi. Quattro ossa (è il caso di dire), ma che riprendono a parlare se messe in connessione con le tradizioni folcloriche e le leggende orrorifiche diffuse in ogni tempo e in ogni luogo, dall’antichità classica e celtica ai giorni nostri (nella versione cinematografica), dagli aborigeni dell’Africa e del Pacifico alla civile Europa. «Sepolture anomale» è il titolo della rassegna, adattamento dell’inglese «deviant burials» (all’estero sono un po’ più avanti di noi in questo tipo di studi, a cui da una decina d’anni il Museo di Castelfranco Emilia ha dato impulso attraverso la rivista Pagani e cristiani). Anomale, o devianti, rispetto ai canoni della pietas normalmente riservata ai defunti. Eppure, fin dalle ere primitive, l’atteggiamento verso i trapassati è ambivalente, un aspetto necrofobico accompagnando (e secondo alcuni studiosi alimentando) le pratiche devozionali. I morti, in quanto tali, entrano a far parte di una società che è opposta e in qualche caso concorrenziale rispetto a quella dei vivi, e ogni precauzione viene dispiegata affinché non si possano dare sconfinamenti, «ritorni» che inevitabilmente turberebbero i nuovi equilibri assestatisi nell’aldiquà dopo la loro dipartita. Uno dei più antichi racconti di revenant, alla base probabilmente di molti tópoi in materia, è stato tramandato in una lettera di Plinio il Giovane. Racconta di una casa infestata da uno spettro sferragliante, a Atene, presa in affitto dal filosofo Atenodoro, che risolse il caso in questo modo: anziché fuggire, si dispose serenamente al rendez vous notturno con il fantasma, lo seguì e l’indomani ordinò di scavare nel punto in cui lo aveva visto scomparire. Venne fuori uno scheletro strettamente incatenato, che fu quindi sepolto a spese pubbliche secondo il rito. Da allora la casa fu liberata dall’inquietante presenza. Attenzione, però: il revenant non è un puro spirito magari ricoperto dal classico lenzuolo, ma un morto che si riprende il suo corpo per tornare a aggirarsi tra vivi, non rassegnandosi alla nuova condizione. Per questo, a ogni latitudine, ecco comparire intorno al cadavere corde saldamente avvinte, per impedirgli di camminare: come è attestato da James Frazer, l’etnoantropologo del Ramo d’oro, per quanto riguarda la tribù australiana dei Dieri o quella dei Taungthu della Birmania, che a questo scopo legavano insieme gli alluci e i pollici del defunto, mentre i Ciuvasci della Russia immobilizzavano il corpo con fil di ferro e gli antichi Indiani gli incatenavano i piedi. Nella mostra di Castelfranco Emilia almeno uno scheletro mostra tracce annerite lungo gli arti, che all’analisi chimica si sono rivelati riconducibili a corde. In altri casi l’immobilizzazione del cadavere è ottenuta con mezzi più drastici e magari attraverso esumazioni successive: amputazione della testa e dei piedi, infissione multipla di chiodi (il chiodo ha la funzione pratica, e insieme simbolica, di «fissare» a una determinata condizione, di rendere uno status definitivo: alcuni crani chiodati, databili tra XI e XV secolo, sono stati rinvenuti anche nel cimitero dell’abbazia della Novalesa, nella Valle di Susa). Uno degli scheletri in mostra ne aveva tre piantati nel teschio, più altri due nell’avambraccio destro, uno dei quali a fissare il gomito al costato, e altri sparsi qua e là, mentre un anello di ferro fissato al terreno serviva a bloccare la spalla destra. Doveva trattarsi di un defunto estremamente «pericoloso», uno di quelli, forse, che venivano individuati all’origine di una catena di morti improvvise e premature - come nei casi incompresi di contagio - e che si immaginava «tornassero» a ghermire i vivi per portarli con sé. Tra i cadaveri avvertiti come più minacciosi erano quelli di persone che in vita si erano tenute, per scelta o per necessità, ai margini della vita sociale (spesso sepolti a faccia in giù, come documentato in mostra, a segnalarne in eterno l’emarginazione, e per render loro più difficile uscire dalla tomba). Oppure dei suicidi (in Cornovaglia venivano interrati agli incroci della strade, in modo che, se si fossero ridestati, si confondessero sulla via da seguire). O anche di chi nasceva malformato, o magari con la «camicia rossa», cioè con il volto coperto dalla membrana amniotica: tale potrebbe essere il caso del neonato esposto a Castelfranco, nella cui tomba sono stati rinvenute alcune ossa di rospo, anfibio associato alle potenze ctonie, che già in epoca villanoviana accompagnava i rithes de passage dalla vita alla morte. Questo e gli altri scheletri della mostra sono la prova archeologica che le superstizioni sui revenant non agitavano soltanto le fantasie: la leggenda nasceva da macabre realtà. Così il mito dei vampiri, che, prima di passare nelle pagine goticheggianti di Polidori e di Stoker, aveva trovato un riscontro nell’inchiesta scientifica disposta all’inizio del ”700 da Maria Teresa d’Austria nelle contrade più selvatiche dell’impero asburgico, Serbia e Transilvania. Una delle prime attestazioni letterarie si ritrova nella Historia Danorum del cronista Saxo Gramaticus (XII secolo), dove si racconta dell’eroe Asmund che si fa seppellire, vivo, con l’amico Asvith, morto di malattia, e di come questi si desti nottetempo nella tomba, sbrani il cane e il cavallo sepolti con lui e poi si avventi su Asmund, che solo dopo una lotta feroce riesce a decapitarlo e a trafiggergli il cuore con un paletto, così uccidendolo per sempre. Degna fine di un draugr (come il morto vivente è chiamato nella tradizione vichinga), poi ripetuta alla noia in centinaia di film e filmacci. Nella realtà le cose dovevano essere un po’ più complicate. Un episodio per tutti, riferito da uno studioso dell’800 che aveva compiuto una ricognizione nell’Europa centrale: un cadavere venne portato al confine e decapitato, poi gli fu infilata una pietra in bocca, fu sventrato, lavato con vino bollente, trafitto al cuore e lasciato in pasto agli animali. E magari lo sventurato, prima di rendere l’anima, aveva pensato: almeno tra un po’ sarà tutto finito...