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 2009  dicembre 30 Mercoledì calendario

CON UN’INTERVISTA A TULLIO PERICOLI


MARCO BELPOLITI
David Levine, newyorkese di Brooklyn, studente di pittura alla Tyler School of Fine Arts di Filadelfia, collaboratore storico della New York Review of Books e prima di Esquire e Atlas, è stato un grande saggista con penna e matita, come ha scritto anni fa Paolo Fossati presentando da Einaudi un volume di 99 sue caricature, che erano pubblicate in tutto il mondo e in Italia da La Stampa. Saggista non solo perché i suoi ritratti di uomini politici, scrittori, attori, filosofi, artisti comparivano fianco a fianco ai lunghi articoli di Susan Sontag, Paul Goodman, Edmund Wilson, Dwight McDonald, ma perché il senso dei suoi disegni sta proprio nell’interpretazione che Levine suggeriva ai lettori. Un suo ritratto non è mai una caricatura, ma appunto un saggio, una prova di lettura di un personaggio pubblico, che egli offriva ai lettori della sofisticata rivista americana. Analisi lucide e sferzanti critiche, ironia sorniona e sobrietà del tratto sono le caratteristiche dei suoi interventi con carta e matita.
Fossati suggeriva che il disegnatore newyorkese, nato nel 1926 e morto ieri, «scrivesse i personaggi», ovvero che li facesse oggetto di un discorso culturale alla pari degli altri collaboratori della rivista cui partecipava. Questo significava che i ritratti di Levine non sono mai delle maschere, che non contengono forzature fisiche o fisiognomiche dei personaggi descritti, per quanto spesso la natura animale nascosta dentro il volto di ciascun personaggi emergesse con forza attraverso i suoi segni. Levine lavora con il tratteggio, come un disegnatore di cartamoneta, fornendo la filigrana di ogni persona, il filo sottile che regge le forme intime delle persone, ciò che sta sotto ogni viso, che si legge nelle posture del corpo, nei gesti enfatici, o invece trattenuti, di ciascuno.
La chiave di lettura dei suoi ritratti è spesso la parodia come l’etimo stesso della parola suggerisce: «contro canto». La parodia, come ha osservato un filosofo, ha qualcosa di metafisico, dal momento che oppone al «come se» della finzione il suo drastico «così è troppo». Nixon stringe un maiale arrosto che tiene in bocca un grappolo d’uva e lui stesso porta alla bocca un analogo grappolo, oppure Truman Capote che è un clown con farfallina o pois e occhiali che gli nascondono gli occhi. O ancora, i Beatles che mostrano un’incessante malinconia disposti uno dietro l’altro fino a formare una piramide che li mostra e insieme li nasconde.
Con Levine scompare l’ultimo lembo di quella repubblica delle lettere che ha avuto in New York la sua capitale pratica e morale, il cui scopo principale era quello di ottenere il massimo risultato possibile con la maggior economia di mezzi. L’arte come esercizio d’essenzialità, in cui anche il moderato manierismo di Levine trovava un adeguato posto accanto alle più lucide menti degli Anni Sessanta e Settanta. Con lui se ne va anche un modo di esercitare in pubblico la propria nevrosi capace di trasformare aneddoti in segni, discorsi in tratteggi, concetti in svolazzi, un’arte che si è persa nel corso degli ultimi trent’anni, e di cui restano solo alcuni solitari eredi, almeno da noi: la precisione caratteriale di Tullio Pericoli e il gossip dello spirito di Alberto Arbasino. Un procedimento d’identificazione della cultura che è ormai retaggio di altre e più remote epoche dello spirito.

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Che cos’era per lei David Levine? Tullio Pericoli, il grande illustratore e caricaturista italiano (il suo Woody, Freud & Others ha fatto il giro del mondo) lo conosceva bene e non ha dubbi: «L’ho guardato e l’ho studiato molto. Gli ho anche rubato qualcosa».
Come lo si potrebbe definire?
«Un maestro del segno. Ricordo che una volta gli chiesi perché non facesse ritratti a colori - anche se in realtà ne ha poi fatti alcuni - e mi rispose: questi sono già a colori. Aveva ragione, naturalmente. Sapeva scavare in modo ineguagliabile col puro segno della penna, trovando anche i colori nascosti».
I colori impliciti?
«Sì, un po’ come accade nelle incisioni di Rembrandt».
 stato un artista innovativo?
«Non moltissimo. Si rifaceva alla classica caricatura ottocentesca, col volto grande e il corpo piccolo. La novità era rappresentata dalla ragnatela di segni con cui riusciva e rendere il carattere, lo spirito. La vera indagine avveniva sul volto, anche se qualche volta nelle sue caricatue comparivano oggetti relativi all’attività del personaggio. Riusciva a scavare magari nell’angolo di un bocca, o in una narice, con una penetrazione senza pari. Non è stato un grande innovatore: è stato un grande artista».
Anche come pittore?
«Questa è una parte curiosa della sua personalità. Amava moltissimo tele, pennelli e tavolozza; dipingeva nudi e paesaggi, faceva persino qualche mostra. Come pittore era del tutto ottocentesco, un pochino accademico, per nulla ironico».
Un’altra persona?
«In qualche modo; e lo sapeva benissimo. Ne abbiamo parlato qualche volta: si rendeva conto di essere del tutto fuori del tempo, ma i quadri lo appassionavano, e questo gli bastava».
Ha detto prima d’avergli rubato qualcosa.
«Ho cercato di rubare qualcosa dei suoi occhi. Nel nostro lavoro bisogna saper guardare, e indagando i suoi ritratti ho capito come guardava lui, e soprattutto che riusciva a vedere più cose di me». /