La Stampa, 30/12/2009, 30 dicembre 2009
CON UN’INTERVISTA DI CERONETTI
BRUNO VENTAVOLI
Giudici, buttate la penna. Se scrivete sentenze, fatelo al computer. La tirata d’orecchie arriva dalla Cassazione, che invita i magistrati italiani ad abbandonare nostalgie e vezzi da amanuensi. Non perché il Palazzaccio voglia d’un tratto buttare al macero secoli d’arte calligrafica. Ma semplicemente perché molte sentenze, vergate a mano, risultano incomprensibili. Giubilano, pare di sentirle, le praticanti che negli studi legali devono stendere atti per poche decine d’euro, e inciampano in scarabocchi, s’impuntano su una «f» che somiglia a una «l», rischiando l’isteria. E gioiscono tutti quelli che nella vita quotidiana hanno a che fare o per mestiere o per casualità con fogli rigati d’inchiostro da mani che non sanno maneggiare penne. Le ricette d’un medico, è noto, sembrano scarabocchi psicopatici. I compiti in classe degli studenti con le dita atrofizzate dai telefonini, per i poveri docenti alla Pennac, paiono tsunami di geroglifici.
La singolare sentenza (numero 49568) parte dalla Corte d’Appello di Napoli, dove due rapinatori hanno cercato di farsi annullare una condanna aggrappandosi a una penna. Ci vogliono condannare - hanno detto - ma è nostro diritto saper perché. E dato che il verdetto è buttato giù peggio che da una gallina, i motivi ci restano ignoti. Il caso è arrivato in Cassazione. I giudici hanno scorso il documento incolpato. E qualcosa di faticoso l’hanno sicuramente trovato. Perché alla fine hanno emesso una nota di biasimo, riconoscendo che il testo era «caratterizzata da un ormai obsoleto ricorso alla scrittura a mano, non vietato ma certamente segno di attenzione ridotta da parte del magistrato amanuense alla manifestazione formale della funzione giurisdizionale». A rincarare la dose: «gli stilemi personalissimi e frettolosi pongono in secondo piano le esigenze del lettore e in particolare di chi, avendo riportato condanna, pretende di conoscerne agilmente le ragioni». Insomma, scrivere sentenze a mano non è vietato. Ma digitarle su un computer è meglio, perché appena eruttate dalla stampante sono immediatamente comprensibili. E’ un segno di civiltà, fin dai primordi del diritto. Chi incise i cuneiformi nella diorite di Hammurabi, si preoccupò di rendere ogni segnetto chiarissimo, meglio d’un bassorilievo divino. Essendoci di mezzo la legge del taglione, ogni tacchetta poco chiara, poteva costare una mano o una testa.
Scrivere a mano, codice penale a parte, è da secoli un’arte sopraffina. Che suscita talvolta meraviglia, talaltre pensieri devianti e cocciute ribellioni, perché la mano che scorre lenta sul foglio parla sempre con il cuore, con l’anima, con la mente. Gli orientali, sulla calligrafia, hanno costruito un sistema di potere e di perfezione poetico-artistica. Bartleby, lo scrivano di Melville, a forza di ricopiare, imparò a ribellarsi sussurrando un mite «preferirei di no», come fosse una virgola venuta male nell’ordine americano. I copisti del nostro medioevo, dopo aver sudato quattro tonache a miscelare inchiostri e appuntire piume d’uccelli, si divertivano poi a nascondere nei colofoni dei nobili testi sms pruriginosi, tipo «Dentur pro penna scriptori pulchra puella» - la penna dello scrittore si merita una fanciulla carina - che suonano scaltri e beffardi quanto l’appello dei due rapinatori napoletani.
Per la storia della Giurisprudenza, comunque, gli sgorbi legali non bastano a farla franca. La Cassazione ha respinto la richiesta dei due rapinatori: «La lettura del testo non è impedita da grafia ostile al punto da precluderne la comprensione la quale, seppur non propriamente agevole, risulta possibile al di là di ogni ragionevole dubbio». Meglio, però, passare al computer. Meno zen, più ineccepibile.
MARIO BAUDINO
Il computer? Per Guido Ceronetti non è certo un problema. Semplicemente non esiste, e non ci sarà sentenza che gli farà cambiare idea.
Lui si tiene ben stretto alla sua vecchia Olympia portatile, una macchina da scrivere che gli hanno regalato vent’anni fa; e quando non l’ha con sé ci manda i suoi articoli manoscritti con una calligrafia perfettamente leggibile, «in bella copia», dice, «un po’ come faceva Montanelli quando non aveva a tiro la sua Lettera 22. Macchina che ho sempre detestato».
Ma come, il Gran Maestro del Teatro dei Sensibili, il Filosofo Ignoto, l’antimoderno con la pazienza dell’arrostito è un esperto di queste cose meccaniche?
«Altro che. A diciott’anni mi sono diplomato in dattilografia. Scrivo con venti dita»
Però la scrittura a mano è un’altra cosa?
«Non c’è dubbio. Se ho una pagina importante, prima la scrivo manualmente. Ricordo una visita al fondo manoscritti della Biblioteca di Parigi, dove c’erano testi di Gide, Colette e molti altri scrittori. Erano battuti a macchina, ovviamente, nell’inchiostro blu che si usava abitualmente all’epoca, con correzioni a mano. Non c’è dubbio che avessero una sorta di pienezza umana».
Che non ha più il computer?
«Il libro al computer è la fine di un modo di pensare, e probabilmente del pensare stesso. Non è più la mano ma la macchina a guidare, ispirare, uniformare gli stili. Come si può immaginare la filosofia al computer, che so, Essere e tempo? Non mi sembra possibile».
Martin Heidegger non aveva il problema della scelta. O per meglio dire di quella scelta. Però, una volta che esista lo strumento, è difficile evitarlo.
«Credo in Italia il primo a usare il computer sia stato Umberto Eco. Ebbene, mi sono sempre stupito che ricorresse a questo mezzo. Del resto i tanti romanzi che escono in questi anni, nel loro realismo arcipiatto figlio dell’elettronica, non appartengono più alla scrittura».
Perché?
«Lei riuscirebbe a immaginare una pagina di Flaubert scritta direttamente sullo schermo? Lo stile di Madame Bovary non è concepibile al computer. E forse nemmeno alla macchina da scrivere, anche se è vero che ci sono stati grandi giornalisti, grandi reporter che l’hanno usata in modo mirabile. Mi pare di ricordare che qualcuno regalò una Remigton a Toltstoj, poco prima che morisse. Credo che non l’abbia mai usata».
Però l’uno è figlio dell’altra. Dove sta la vera differenza?
«Nel fatto che il figlio è degenere, è un parente di rottura, ha abbandonato la famiglia molto presto».
Qual è, o quel era, il confine?
«Per quel che mi riguarda è stata la macchina da scrivere elettrica, quell’enorme marchingegno che si è affermato per un certo periodo. Ma è un confine che non ho mai superato. Del resto, li vede i grandi della Magnum, Robert Capa o Henri Cartier Bresson, a fare le fotografie col telefonino?»
Immagino che lei non abbia tentato l’esperimento.
«Ho scattato qualche foto in vita mia. Con una vecchia Reflex».