Paolo Manzo, La Stampa, 30/12/2009, 30 dicembre 2009
Il posto dell’«Allez, c’est parti» sugli Champs Elysées, l’ugualmente larga Avenida 9 de Julio a Buenos Aires
Il posto dell’«Allez, c’est parti» sugli Champs Elysées, l’ugualmente larga Avenida 9 de Julio a Buenos Aires. Invece del deserto africano, il silenzio tormentato della pampa. Anziché le montagne dell’Atlante, le Ande e il deserto cileno, con le dune dell’Atacama. Il rally più famoso del mondo continua a chiamarsi Parigi-Dakar ma dall’anno scorso, quando cambiò di continente, è davvero un’altra cosa benché la materia prima - cinquemila mezzi tra auto, moto e camion - continui a essere la stessa. Il fatto che adesso si gareggi a migliaia di chilometri dal Senegal sembra irrilevante ai fini dello spirito della gara, che comincerà il prossimo primo gennaio. I concorrenti hanno ben altro cui pensare: come percorrere gli oltre novemila chilometri tra Argentina e Cile, passando dall’Atlantico al Pacifico, vincendo possibilmente la gara ma soprattutto salvando la pelle. Si sono iscritti 385 veicoli: 161 moto, 141 auto, 53 camion e 30 quad. Sono 154 in meno rispetto alla prima edizione sudamericana, sintomo che il cambiamento geografico qualche problema l’ha creato, al di là del fatto che trasferire l’Africa in Sud America è stato, per molti fedelissimi e addetti ai lavori, un atto blasfemo. Ma il trasloco era diventato indispensabile per ragioni di sicurezza; le piste dell’Africa nord occidentale era diventate troppo pericolose, con i loro rischi di rapimenti e terrorismo. Resta comunque intatto il fascino di una competizione massacrante, che in questa seconda edizione in versione latinoamericana attraverserà otto province in Argentina e cinque in Cile per un totale di 17 giorni di gara. Da Buenos Aires, attraversando la pampa umida della provincia di Santa Fé e le colline di Cordoba, la carovana della Dakar 2010 arriverà a La Rioja, zona vitivinicola per eccellenza nonché feudo di Carlos Saul Menem, ex presidente della Repubblica argentina. Poi costeggerà la Cordigliera delle Ande verso Nord e passerà in Cile. Lì i concorrenti saranno divisi in due categorie: quelli che si dovranno accontentare di arrivare in fondo al rally e quelli che, invece, continueranno sino al 17 gennaio, gareggiando per la vittoria finale in pieno deserto cileno, mille chilometri di dune andata e ritorno, con un giorno di pausa. «Il percorso è molto più duro di quello dell’anno scorso - racconta Marc Coma, lo spagnolo che, con la sua moto Ktm, ha vinto l’edizione 2009 -. Con cinque prove speciali sopra i 400 Km e una di 600 Km ne vedremo delle belle, soprattutto sulle dune del deserto dell’Atacama». Dove l’escursione termica è altissima: dai 40° del giorno ai -10° della notte. Per i fortunati che resisteranno alle durissime prove, il traguardo è il punto di partenza, Buenos Aires. A concentrarsi sul percorso non ci sono però solo i corridori. Anche gli ambientalisti guardano il tracciato con preoccupazione e hanno già denunciato i danni che il passaggio dei camion e delle moto può portare ad alcuni dei territori del percorso. Il biologo argentino Raul Montenegro, presidente della Funam, la Fondazione argentina per la difesa dell’Ambiente, ha presentato un ricorso al giudice di prima istanza Federico Ossola affinché la prima e la seconda tappa non attraversino la provincia di Cordoba. «Sulla Gazzetta Ufficiale non c’è scritto nulla, mentre il tracciato automobilistico dev’essere autorizzato per iscritto dalla provincia», spiega Montenegro, che insegna Biologia Evolutiva alla UNC, l’Università statale di Cordoba e per il suo impegno ambientalista ha vinto nel 2004 il Nobel Alternativo per l’Ambiente. La sua preoccupazione non è eccessiva: la scorsa edizione ha causato cospicui danni a intere aree ecologiche, il cui fragile equilibrio di biodiversità sarebbe stato intaccato dal passaggio delle ruote. «E’ il rally che deve adeguarsi alle leggi argentine e non il mio Paese agli organizzatori, come purtroppo è accaduto lo scorso anno», attacca Montenegro, cui fanno eco altri ecologisti sul versante cileno, quello del deserto dell’Atacama. A cominciare da Luis Mariano Rendón, coordinatore di Azione Ecologica Cile, secondo il quale «gli avventurieri arrivano, gareggiano e se ne vanno, gli organizzatori si arricchiscono mentre noi facciamo la parte delle repubblichette in cui gli stranieri possono fare ciò che è proibito fare nei loro Paesi». Una Dakar senza polemiche? Impossibile, anche in Sud America. Stampa Articolo