Adriano Prosperi, la Repubblica 30/12/2009, 30 dicembre 2009
Giovinezza, intelligenza, un padre ricchissimo, una laurea all´University College di Londra, l´esperienza di un ambiente occidentale imbevuto di liberalismo: questi i connotati sociologici di Umar Farouk Abdul Mutallab
Giovinezza, intelligenza, un padre ricchissimo, una laurea all´University College di Londra, l´esperienza di un ambiente occidentale imbevuto di liberalismo: questi i connotati sociologici di Umar Farouk Abdul Mutallab. Non c´è da stupirsi se, nonostante la denunzia del padre, Umar è riuscito a superare gli sbarramenti di sicurezza dell´aeroporto. Questo vuol dire che l´idea occidentale dell´attentatore suicida come un disperato che non ha nulla da perdere è fondamentalmente sbagliata. Di più, vuol dire che la nostra stessa storia non ci ha insegnato nulla, che da noi l´immagine del nemico totale è disegnata dagli istinti viscerali di una società tanto ricca di beni di consumo quanto povera di conoscenza storica e di intelligenza umana. Non è da oggi ma da alcuni secoli che le polizie e le fantasie collettive del moderno mondo borghese hanno individuato nel diseredato il membro di una classe pericolosa. Ma il ragazzo che ci guarda dalla foto, quell´Umar che è diventato poi il terrorista pronto a morire e a far esplodere il volo 253 della Northwest Airlines, non era né povero di beni di consumo né privo di cultura occidentale. Oggi possiamo conoscere anche i suoi pensieri se è vero che sono suoi i messaggi rintracciati su un forum online dal Washington Post. Li avrebbe scritti tra i 19 e i 21 anni. Pensieri suoi e dei suoi anni: ma riconoscibili. Qualche volta sono appartenuti anche a noi. E apparterranno ancora ai ventenni che vivranno. Il linguaggio della giovinezza ha dei tratti universali: tale è quella confessione di solitudine e di smarrimento: «Non ho nessuno a cui chiedere consiglio, nessuno che mi sostenga, mi sento depresso e solo. Non so che fare. E poi penso che questo senso di solitudine mi possa portare altri problemi». Depresso e solo, a vent´anni. Chi non si è sentito così? Come scrisse Paul Nizan nell´indimenticabile prima riga di Aden-Arabia, a nessuno si deve permettere di dire che vent´anni è l´età più bella della vita. Paul Nizan trovò la risposta all´inquietudine immensa di quella sua giovinezza nella scelta di diventare comunista e di immergersi nell´inferno della seconda guerra mondiale come uomo votato alla morte. Dove si vede che ogni tempo e ogni cultura ha gli ingredienti adatti per tradurre il disagio di vivere e di essere giovani in scelte totali di vita e soprattutto di morte: scelte che poi gli altri leggeranno secondo coordinate politiche e ideologiche ma che sono prima di tutto scelte sacrificali prodotte dalla illimitata disponibilità di chi è giovane a morire purché gli se ne offra una buona ragione. A Umar Farouk la ragione l´ha offerta una religione vissuta con l´impazienza e il rigorismo del ventenne che chiede certezze di idee ai maestri e conforto di amicizia ai compagni. Piaceva a Pasolini il messaggio coranico che lo inquietava, figlio di una frase del Gesù dei cristiani: «Il profeta ha detto che essere religiosi è un compito leggero». Un fardello leggero che si rivelava poi anche per Umar radicalmente inquietante. E dunque «come trovare un equilibrio?». L´equilibrio che Umar cercava era minacciato da quegli stessi privilegi di classe che lo portavano a vivere sulla linea di confine tra due mondi: una famiglia guadagnata alla cultura occidentale e il richiamo della purezza religiosa intravista in mezzo ai «veri amici» mussulmani incontrati in Egitto e nello Yemen. E, come un tempo nelle famiglie borghesi occidentali, la ribellione alla famiglia è stato il primo passo sulla via di abbracciare un´ideologia totale. Davanti alla prospettiva di una cena familiare, Umar scriveva all´amico islamico: «I miei genitori la pensano come qualsiasi straniero, che possiamo mangiare qualunque tipo di carne. Ho pensato che non dovrei mangiare con loro, ma temo che questo possa creare divisioni ed altri complicati problemi familiari». un pensiero del dicembre 2005. Da lì in poi cessano le tracce scritte e possiamo solo immaginare il percorso del giovane che si imbarcherà sull´aereo con l´intenzione di morire e di uccidere. Ma ci sono fonti storiche capaci di spiegarci che non si tratta di perversioni indotte da ispirazioni religiose estranee alla nostra cultura. Sono fonti della cultura cristiana europea che hanno trovato la via del cuore dei giovani. Perché anche da noi sono stati i giovani a combattere l´assetto esistente: non i vecchi. I vecchi – scriveva Lodovico Alamanni nella Firenze di Machiavelli – «sono savii e de´ savi non si deve temere, perché non fanno mai novità». I giovani allora cercavano il rinnovamento del mondo e la salvezza della propria anima in un cristianesimo radicale che li spingeva a uccidere e a morire. Il mondo poteva essere cambiato solo con la forza: e il Vangelo garantiva che il cielo era dei violenti. Chi sfruttava quella violenza – i potenti di allora – cercava di frenarla e di incanalarla. La questione dell´obbligo cristiano di uccidere i tiranni fece versare molto inchiostro di teologi, pontefici e regnanti e impegnò la maggiore cultura politica dell´Europa lacerata dalle divisioni religiose tra ´500 e ´600. E questo perché allora giovani votati al martirio, educati nelle migliori scuole, tentavano di uccidere i re e i potenti del tempo: tentavano e qualche volta ci riuscivano. Chi può dimenticare l´angoscia religiosa del peccato che, unita all´insegnamento dei gesuiti, spinse nel 1594 un giovanissimo attentatore, il francese Jean Chastel, ad aggredire re Enrico IV per eliminare il re eretico ma soprattutto per guadagnarsi il perdono di un peccato inconfessabile? L´orrendo strazio della morte pubblica a cui fu condannato non impedì che altri seguissero il suo esempio. Ci volle una laicizzazione della politica e la creazione di una distanza di sicurezza tra stato e religione perché quelle fantasie religiose di salvezza e di morte regredissero: salvo riemergere in veste nuova nel modello del rivoluzionario ottocentesco alla Neciajev: un «uomo votato alla morte».