Will Self, L’Espresso, 29 dicembre 2009, 29 dicembre 2009
WILL SELF PER L’ESPRESSO 29 DICEMBRE 2009
La dea Kate Moss Bella in un modo unico, che solo a lei è possibile: super-ordinario. Se Kate Moss è un’icona globale è per una sua misteriosa qualità: rendere perversa l’innocenza. Una divina ragazza della porta accanto
Due o tre anni fa mi trovavo nella galleria londinese del mercante d’arte Jay Jopling quando una giovane donna mi si è avvicinata e mi ha chiesto: «Lei è l’amico di Marianne, no?». Ho fissato quella giovane donna, cercando di ricordare chi caspita potesse essere la mia amica Marianna. Mi sono accorto all’improvviso che quella era una donna molto giovane, dalla figura esile, inguainata in un abito di seta blu aderente lungo fino a terra (era sera, eravamo a una festa); portava le ciocche dorate dei capelli pettinate all’indietro, la fronte libera, alta e risoluta, e sarebbe bastato un nulla per definire alla francese il suo naso sottile. «Mm...sì», ho farfugliato, «suppongo di sì. E lei è...?». L’espressione sul suo grazioso volto è mutata quasi impercettibilmente, e l’incredulità ha dovuto probabilmente scontrarsi con un vago senso di offesa. Mentre osservavo quel delizioso gioco di emozioni, mi rendevo conto che non si trattava semplicemente di una giovane donna: era una giovane donna estremamente attraente. «Sono Kate», ha detto, e sentendola pronunciare le vocali piatte dei sobborghi londinesi, ho iniziato ad avere un lampo di luce sulla sua identità.
«Già, Kate. Kate e poi?», ho chiesto ancora. Mi sono stupito io stesso scoprendo che non soltanto la stavo proprio fissando, ma ne ero come trafitto: non si trattava semplicemente di un volto magnifico, ma con ogni probabilità del volto più bello che io abbia mai avuto il privilegio di poter ammirare. Era una sensazione strana, tuttavia, perché in quel viso non c’era nulla di particolare, se lo si scomponeva nelle sue fattezze. Era un po’ come la sensazione che si prova quando la ragazza carina della porta accanto si rivela di colpo una dea. E poi - pietrificato come Atteone allorché si rese conto che era Diana colei che aveva visto fare nuda il bagno - ho sentito le parole fatali: «Moss. Sono Kate Moss».
Mi sembrò ci fosse qualcosa di straordinario nel non aver riconosciuto la più famosa top model britannica, senza alcun dubbio il contributo inglese di maggior pregio alla stirpe globale della bellezza femminile. L’episodio pare indicare non soltanto un’amnesia culturale da parte mia, ma anche una determinazione - per quanto inconscia - a incontrare ogni donna che incontro come fosse la prima volta: spoglia di tutto quello spossante apparato, le borse di Balenciaga, le pochette di Louis Vuitton, le sacche da viaggio Burberry piene di soldi. Oltretutto, quella non era la prima volta che non mi era proprio riuscito di riconoscere la Moss. Eppure io sono stato un precoce ammiratore di Kate Moss.
All’inizio dei Novanta avevo iniziato a sentire parlare una mia ragazza, molto chic, di una giovane modella di Croydon che avrebbe sicuramente sconvolto il mondo della moda come una tempesta. All’epoca eravamo tutti disperatamente depravati, ma la definizione appena coniata di "heroin chic", adottata per il look emaciato di Moss già allora, ci colpì come una eccentricità particolare. Devo chiarire due concetti. Croydon non è tanto una cittadina satellite a sud di Londra, quanto un modo di pensare: pensate a "periferico" e moltiplicate per centinaia tutte le suggestioni di torpore che vi vengono in mente.
Il concetto di una Kate Moss come l’ultima divina ragazza della porta accanto è accentuato dal fatto che le sue radici si trovano in quelle casette bifamiliari dai mattoni rossi e l’intonaco fatto col ghiaino, e che è figlia di una cameriera e un’agente di commercio. E poi c’è quel look, quell’heroin chic, quell’espressione che era iniziata a circolare nell’ambito della campagna di informazione contro l’Aids del 1987 del governo britannico, nella quale figurava una serie di figli di nessuno ricoperti di croste e impegnati in attività che facilitano enormemente la trasmissione del virus. Il tutto sotto lo slogan: "Non morite di ignoranza".
Dopo alcuni anni l’heroin chic entrò nella campagna pubblicitaria di Moss per Calvin Klein. Tornando col pensiero a quelle immagini gigantesche in bianco, nero e grigio della modella, colta sul finire dell’adolescenza con la sola mini biancheria intima indosso, mi stupisco di quanto affascinante sia diventata, poiché negli anni trascorsi da allora siamo diventati tutti molto disincantati nei confronti delle taglie zero e delle modelle dell’età che piaceva tanto a Roman Polanski.
Non vorrei dilungarmi sul portfolio di Kate Moss, ho seguito solo un paio di sue campagne pubblicitarie, per esempio quella in cui camminando in modo saltellante lasciava che i capelli ondeggiassero per L’Oréal. Il suo annuncio stentoreo, "Ho dichiarato guerra alle doppie punte", rammentava a me e ai miei figli il preambolo di prammatica delle nostre battaglie di wrestling digitali: «Uno, due tre, quattro: dichiaro aperta la guerra dei pollici!». Anche vestita con raffinatezza per lo spot dell’Oréal, Mossy sembrava pur sempre quel genere di ragazza che non disdegnerebbe una guerra di pollici, qualche coccola e un bicchiere di latte caldo prima di andare a letto. Niente a che vedere con Lolita, insomma, Kate Moss dimostra la sua età. Mi riferisco piuttosto a una certa aria di genuinità che lei riesce sempre a lasciar trasparire senza sforzo alcuno. Una genuinità che rimane stranamente indenne perfino nello spot di quest’anno di Parisienne, di Yves Saint Laurent, nel quale alcuni petali di rosa accarezzano il suo bustier di pelle mentre la nostra Katie rivive con piacere i ricordi che essi rievocano in lei a bordo di una limousine, mentre attraversa Parigi al ritmo da rock and roll della colonna sonora dei Depeche Mode. Non una di quei due miliardi di copertine che hanno pubblicato il broncio di Kate Moss erano destinate a me, né a voi. Ma a livello globale, come se orbitasse in guisa di specchio al di sopra del genere umano femminile,Kate Moss riflette per le nostre mogli, le nostre fidanzate, le nostre figlie e perfino le nostre madri, il loro stesso sogno di essere straordinariamente belle come solo lei sa essere: in modo super-ordinario. Fino al 2005, quando le foto di Moss che sniffava cocaina ricoprirono la prima pagina del "Daily Mirror" britannico, aveva sempre mantenuto una sua posizione, quella che J. D. Salinger attribuisce alle persone affascinanti: non aveva mai rilasciato un’intervista e le sue uniche dichiarazioni in pubblico erano state sfoghi di un’esperta in fatto di passerelle, o quel genere di stucchevoli nullità che ci si aspetta di ascoltare da una testa vuota. Tutto dipende da come lo (e la) si voleva interpretare.
E tutto ciò ha alimentato il desiderio dell’artista Marc Quinn di creare una statua d’oro di "La Mossima", intitolata semplicemente "Siren".
In precedenza Quinn aveva realizzato una statua di Kate Moss in bronzo: era riuscito a prendere il calco della sua testa, ma la modella - agendo probabilmente con grande saggezza - aveva offerto il corpo di qualcun altro al posto del suo e rifiutato di essere raffigurata senza i suoi microscopici top e mutandine. Siren presenta la stessa precisa atarassia di Kate Moss, con le gambe ripiegate dietro la testa dorata, le pudenda che poggiano sul piedistallo del basamento, e le pupille dei suoi occhi senza prezzo lucidate a specchio. Quello era un periodo eccezionale per gli artisti britannici, che producevano opere dannatamente care.
Damien Hirst aveva esposto il suo "For love of God", un teschio di platino ricoperto di diamanti che sfoggiava un cartellino da 50 milioni di sterline. Avevo tenuto in mano il teschio in un caveau nel distretto dei diamanti a Londra, ad Hatton Garden, e qualche mese dopo mi capitò di tenere in mano l’esile polpaccio dorato di Moss, custodito in un altro caveau a un miglio di distanza da Goldsmiths’ Hall. Con i suoi 45 chili, la statua in oro 18 carati (cava, la più grande del genere a essere realizzata dall’antichità a oggi) per coincidenza pesa quanto la vera Kate Moss. Avendola sollevata io stessa sul suo piedistallo, posso testimoniare che è fredda e pesante e si smonta in corrispondenza della saldatura centrale. Quinn e io ci trovavamo a Goldsmiths’ Hall a chiacchierare sulla Siren per l’introduzione al catalogo che stavo scrivendo e non ci è sfuggita l’ironia del fatto che l’opera, la cui realizzazione è costata 1,5 milioni di sterline, stava aumentando progressivamente di valore perché tutti i liquidi erano risucchiati dal circostante distretto finanziario. Ma la Siren di Quinn non ha attratto tutti quei trader, non più di quanto la presunta sniffata di cocaina di Kate Moss abbia intaccato l’immagine di irrefrenabile consumismo che ha portato alla sbornia del dopo-boom. Se dovessimo cercare un modello di ripresa dal crollo economico, ci basterebbe limitarci a Moss, la cui dichiarazione di 4-righe-4 sulla scia delle rivelazioni del "Mirror" (già molto, tenuto conto del suo abituale silenzio da sfinge) è stato l’equivalente del martellante mea culpa professato da qualsiasi altra star nellatrasmissione di Oprah.
Con un giudizioso periodo di recupero in una clinica di disintossicazione e qualche mese di basso profilo, è ritornata in passerella, presentando le sue nuove tariffe prima ancora che avessero inizio le sfilate. Senza volermi spacciare per esperto di stile, il comportamento di Kate Moss era già noto agli addetti ai lavori. E da quando aveva iniziato a uscire con Pete Doherty, ex leader dei Libertines, era evidente che sarebbe stata soltanto questione di tempo prima che inciampasse e cadesse. Doherty era un ragazzo immagine, del genere sciatto, dedito all’eroina, e pareva diabolicamente propenso alla massima "ignoranza" di cui sopra: i paparazzi li seguivano ovunque e a colazione il passatempo preferito della nazione era diventato leggere le ultime notizie in fatto di salti tra le lenzuola e di scambi di partner, baldorie e feste alle quali partecipavano lui, Moss e il loro seguito, "il set di Primrose Hill", dal nome dell’elegante quartiere di North London dove vivevano buona parte del tempo.
In mezzo a tutto ciò, Moss è rimasta inspiegabilmente risplendente, come il suo stesso alter ego in oro, o un Dorian Gray dei nostri tempi. E quando dico che si smonta in corrispondenza della sua saldatura centrale è proprio questo che intendo. C’è naturalmente la scaltra Kate Moss che è artefice in buona parte della sua immagine e del suo destino, e un’altra Kate che, malgrado una propensione più potente della media per quel genere di cose che nella vita sono ottime finché di colpo non si trasformano in pessime, emana fiera adorazione. Ricordate bene: non si tratta semplicemente di un’adorazione di cui è oggetto da parte dei suoi amici più intimi. Trasmette quasi un senso di omertà, fino a comprendere un ampio settore del bel mondo bohemien di Londra. Il che mi riporta a quello che chiamo ormai il Secondo Grande Momento di Non Riconoscimento. All’inizio di quest’anno, un amico comune mi ha chiesto di fare la mia parte a uno spettacolo di beneficienza di talenti e star, e così ho individuato il Café de Paris per realizzare una serie di scherzi nei quale dovevo comparire insieme a tre adorabili donne in abiti scollati. Nel camerino ho visto una bionda dalla splendida figura e ho creduto che si trattasse di una delle adorabili donne messe a mia disposizione dagli organizzatori, e l’ho salutata: "Ciao Ruby!". «Ruby!», ha ribattuto seccata Kate Moss, perché di lei si trattava. «Non sono nessuna cazzo di Ruby!».
Per tutta la serata, sotto gli occhi di centinaia di spettatori, Moss si è comportata con un totale e ostentato disprezzo di qualsiasi convenzione. Pur facendo palesemente parte di un gruppo di giurati seri e severi, spesso scivolava sotto al tavolo. Nessuno se l’è sentita di censurarla o criticarla, e certo non lo farò io adesso. Da quello che mi dicono amici comuni, è un’anima affascinante intenta a rifilare a tutti la sua versione di una colazione all’inglese come si deve. Questo pasto, di norma assai sostanzioso, si compone di parecchie uova, fette di pancetta, salsicce, fagioli cotti e pane fritto in padella. Ma dopo il trattamento Moss si riduce a niente più che un assaggino, un unico uovo, un unico pezzo di pancetta e mezza fettina di pane tostato. Forse l’ultima parola su Kate Moss spetta a mia moglie, lei stessa una fanatica di bellezze femminili. A quella stessa festa alla quale avevo mancato di riconoscere Kate Moss, mia moglie aveva chiacchierato a lungo con lei. Si erano trovate così bene a parlare, che la modella aveva chiesto se poteva avere il numero di telefono di mia moglie. E lei, auto-denigrandosi, aveva detto: «Non ti preoccupare: sappiamo bene entrambe che non mi chiamerai mai. Ma se ti fa piacere, dammi tu il tuo numero». Quando più tardi me lo ha riferito, le ho chiesto con entusiasmo: «E te lo ha dato? Hai preso il suo numero?». «Beh», ha risposto filosoficamente mia moglie, «volevo farlo. Anzi, avevo già pronto il cellulare per digitare il numero. Ma non sono proprio riuscita a toglierle gli occhi di dosso e a guardare la tastiera». Credetemi: Kate Moss è davvero molto bella.