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 2009  dicembre 27 Domenica calendario

Pakistan e Usa, alleanza in crisi Pronto un nuovo ruolo per l’India di Cristopher Hitchens per il Corriere della Sera - Il vicepresidente Usa Joe Biden è un politico appassionato e «in qualunque luogo si trovi, porta avanti le sue battaglie», è stato il commento di un giornalista nei giorni scorsi

Pakistan e Usa, alleanza in crisi Pronto un nuovo ruolo per l’India di Cristopher Hitchens per il Corriere della Sera - Il vicepresidente Usa Joe Biden è un politico appassionato e «in qualunque luogo si trovi, porta avanti le sue battaglie», è stato il commento di un giornalista nei giorni scorsi. Eravamo in attesa di entrare nello studio televisivo per commentare l’intervista tra Biden e l’équipe Scarborough-Brzezinski sull’Afghanistan. Uscendo dalla sala il vicepresidente si è fermato a parlare con noi e io gli ho chiesto perché avesse menzionato l’India una sola volta nel corso del suo intervento. Biden ha subito colto la palla al balzo e, con un trucco che i migliori politici conoscono bene, ha detto che è un peccato che il Pakistan preferisca mantenere le sue truppe migliori schierate sul confine con l’India (Paese amico degli Stati Uniti) anziché inviarle nella zona Fata – le aree tribali ad amministrazione federale – dove potrebbero essere impiegate nel combattere i talebani e Al Qaeda (i nostri nemici). Poi il vicepresidente mi ha stretto la mano ed è passato oltre. I giornali hanno rivelato che le autorità pachistane non mostrano alcun interesse nel dare la caccia a un certo capo talebano in Afghanistan, perché lo considerano un importante alleato. Il giorno successivo, la stampa riferiva che il Pakistan si rifiuta di prolungare i visti all’ambasciata americana e ad altro personale statunitense, provocando una graduale paralisi di tutte le attività, dal lavoro dell’intelligence alla manutenzione degli elicotteri. Sorgono, com’è ovvio, diverse domande. La prima: da chi sono state emanate queste direttive? Quando si è reso necessario rivolgere parole dure e spiacevoli al presidente Hamid Karzai per il suo regime sciatto e inefficiente, il compito è toccato al nostro vicepresidente. Per tutto il resto, i rapporti tra Afghanistan e Pakistan sono gestiti teoricamente da Richard Holbrooke, che ultimamente mostra segni di crescente insoddisfazione. Eppure non passa giorno che il segretario di stato Hillary Clinton, o il ministro della difesa Robert Gates, o altri funzionari della Cia, per non parlare di una sfilza di generali, non mettano piede sulla pista d’atterraggio a Kabul o Islamabad. Se siamo davvero davanti a una «squadra di rivali», si direbbe che le differenze fondamentali di linea politica non siano state sufficientemente chiarite da salutari dibattiti. Anzi, sembra di assistere a un insuccesso dopo l’altro. La seconda domanda è la nuova versione di un interrogativo scontato. Perché i pachistani odiano l’America? Inutile porla con tono lamentoso, tipo «dopo tutto quello che abbiamo fatto per loro», ma l’enigma resta. Gli Stati Uniti elessero il Pakistan a principale alleato durante la Guerra fredda. Preferirono chiudere un occhio sulle ripetute incursioni dei militari nel campo politico. Firmarono un gran numero di assegni senza fare troppe domande. In genere, favorirono il Pakistan rispetto all’India, considerata pericolosamente «neutrale» in quegli anni, e durante la guerra con il Bangladesh si coprirono tutti e due gli occhi sul genocidio perpetrato dai pachistani contro la popolazione musulmana del Bengala orientale. Durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan, Washington finanziò costantemente i militari pachistani e i loro servizi segreti, consentendo loro di acquisire – di soppiatto – anche armamenti nucleari. A questo punto appare ovvio il motivo per cui le élite pachistane odiano gli Stati Uniti. Odiano l’America perché li foraggia, generando sentimenti di dipendenza. un rancore da cui scaturisce quel malcontento che si riscontra spesso tra gli Stati clientelari e i loro protettori. (Si avverte il medesimo risentimento nell’establishment egiziano, e talvolta anche tra gli esponenti della destra israeliana). Per rimediare al loro stato di sudditanza come beneficiari delle elargizioni americane, questi gruppi si affannano a sbandierare i loro ultimi stracci di orgoglio. La valvola di sfogo più sicura, a questo scopo, nel caso del Pakistan, è rappresentata da una cultura ufficiale che invoca la solidarietà islamica, da un lato, mentre dall’altro allunga la mano a ghermire il prossimo sussidio. Gli ufficiali militari pachistani oggi mostrano in pubblico di voler difendere l’indipendenza nazionale, quando il vero obiettivo è quello di salvaguardare nel tempo l’egemonia della loro casta e di estenderla oltre confine allo sfortunato vicino afghano. Questo è, ed è sempre stato, un connubio vacillante, che ora minaccia di diventare pericolosamente destabilizzante. Su simili basi è impossibile instaurare un’alleanza fattiva, affidabile e animata da reciproca fiducia e obiettivi condivisi. Sotto il comunismo, circolava una battuta tra gli operai dell’Europa orientale: «Noi facciamo finta di lavorare, e loro fanno finta di pagarci». In questo caso, i pachistani se ne infischiano persino di fingere di combattere contro il nemico comune, eppure noi continuiamo a finanziarli. La situazione rischia di degenerare e inasprirsi sempre di più, fintanto che non riconosceremo nell’India, e non nel Pakistan, il nostro vero e fidato alleato in Asia. L’India, inoltre, non si piange addosso e non nutre alcun risentimento nei nostri confronti, perché mai è stata soggetto coloniale o clientelare dell’America. Non siamo costretti a spedire a Nuova Delhi una quindicina di inviati speciali ogni mese proprio perché i rapporti con l’India non sono fondati su isterismo e invidia. E purtroppo l’India viene spesso menzionata solo come ripensamento. Nulla potrà mai cambiare, se non cambierà questo stato di cose. La ragione per cui l’esercito pachistano protegge i talebani in Afghanistan è perché ha appreso di recente che si prevede un ritiro delle truppe americane in tempi brevi. Perché mai non dovrebbe elaborare futuri progetti su tale supposizione, mentre moltiplica gli sforzi in vista di un eventuale conflitto armato contro l’India, e per di più con il nostro aiuto, seppur involontario? Nel frattempo, invece, ecco che andiamo a predicare agli afghani come devono comportarsi. «Buona fortuna per l’ultimo anno», è stato il messaggio ironico lanciato dal vicepresidente a Kabul. (Chissà come l’avranno tradotto in Pashtun). Mi auguro che venga presto il giorno in cui potremo rivolgerci pubblicamente in questi termini ai pachistani, per informarli che gli aiuti’ da loro tanto disprezzati – stanno per esaurirsi.