Valerio Massimo Manfredi, Panorama, 1 gennaio 2010, 1 gennaio 2010
VALERIO MASSIMO MANFREDI PER PANORAMA 1 GENNAIO 2010
Viaggio al centro del Cern L’acceleratore di particelle rappresenta la più grande impresa nella storia della scienza, perché vuole simulare le origini dell’Universo. «Panorama» ha inviato un celebre scrittore per raccontare questa sfida tra incidenti e profeti di sventura.
Quello che colpisce di più in questo posto è la calma. Tutti appaiono tranquilli e rilassati. Uno si aspetta una tensione che si taglia con il coltello, il pensiero va alle ipotesi estreme uscite in questi ultimi giorni: la macchina che sta cercando di impedire a se stessa di funzionare, la minaccia di un buco nero prodotto dal collisore che poi inghiottirà tutto il pianeta… La situazione è talmente tranquilla che se anche uno avesse avuto dei pensieri bizzarri se li fa passare subito. Tutto sotto controllo.
Le montagne intorno sono coperte di neve, la nostra auto passa attraverso un bosco di querce, carpini e betulle. Sotto le ruote, a 100 metri di profondità, c’è un anello d’acciaio lungo 27 chilometri e largo 3 metri che contiene i magneti in grado di far collidere le particelle subatomiche a una velocità prossima a quella della luce. Ci stiamo dirigendo verso la sala controllo del primo rivelatore. Rilevatore?, chiedo proponendo una correzione. «No, ri-ve-la-to-re» risponde con un mezzo sorriso «the spokesperson», alias Guido Tonelli, responsabile dell’esperimento dell’Cms, uno dei due colossali rivelatori, una bestia da 3 mila tonnellate annidata nella caverna. L’altro è l’Atlas e anche lì il responsabile è italiano, Fabiola Girotti.
Ovviamente Tonelli sta pensando alla capacità di rivelare le tracce della collisione, lasciate da particelle così piccole da essere prossime al nulla, così effimere da svanire in 1 miliardesimo di secondo. curioso come in questo mondo di infinitamente piccolo circolino le cifre dell’infinitamente grande. ovvio: sono la stessa cosa. Una parola che fa un po’ impressione, rivelatore: fa pensare a rivelazione, ma è proprio questo il punto.
Questa macchina è veramente in grado di darci la rivelazione? una domanda che non mi pare il caso di porre. Stiamo con i piedi per terra. Qui siamo fra scienziati che vanno avanti un passo per volta e, qualunque cosa dicano, sono tenuti all’onere della prova.
«Già, scienziati» commenta Tonelli, che è toscano, pisano per la precisione. «Sì, la gente ha dei pregiudizi, pensa che sappiamo tutto, invece non sappiamo niente». Bella affermazione, molto socratica, ma proprio niente mi sembra un po’ troppo modesto... «Diciamo che sappiamo una minima parte del nostro universo. Un 5 per cento è già una stima ottimistica».
Ora siamo davanti a uno schermo: «Vede questa porzione di cielo?». Certo, è una foto scattata dal telescopio orbitante Hubble, si vede una miriade di stelle. «Non sono stelle. Sono galassie e ognuna contiene miliardi di stelle». Si resta allibiti. Galassie di miliardi di stelle tanto lontane da sembrare puntini luminosi. Manca il fiato solo a pensarci. Abissi incolmabili di gelo cosmico e poi immani vortici di sfere roventi a loro volta distanti l’una dall’altra migliaia di anni luce.
«Nota niente di strano in questa immagine?» mi fa. Quel globo luminosissimo sulla sinistra? azzardo. «Quella è solo una stella, abbastanza vicina, per questo la vediamo così grossa». Abbastanza vicina significa pur sempre qualche migliaio di anni luce. Tonelli, maglione e jeans, barba di tre o quattro giorni, è il tipo di persona che ispira fiducia e simpatia proprio perché è così tranquillo e maneggia le sue galassie come se si trattasse di bruscolini. Mi sforzo di capire che cosa stia cercando di dirmi e tento di scandagliare l’immagine cercando qualche oggetto misterioso, ma vedo solo punti luminosi nel buio. Mi arrendo.
«Ci sono due aree in cui le galassie sono più fitte e numerose, quando dovrebbero essere tutte equidistanti. Si è pensato a una enorme nube di polvere cosmica, così grande da esercitare forza di attrazione, ma no, la polvere c’è ma è qui, di lato, nell’area confinante. Ciò che le tiene insieme è una materia sconosciuta, capace di tenere al guinzaglio intere galassie. La chiamano supermateria e non ne sappiamo nulla. Costituisce circa l’80 per cento dell’universo».
Bene. Ha ragione lui: c’è ancora una sterminata regione misteriosa da esplorare, anche se a ogni sua frase mi rendo conto di che cosa fanno questi uomini, donne e ragazzi (centinaia, giovanissimi), oltre 2.500 persone da tutto il mondo radunate in una comunità di cui non esiste l’uguale. Cercano risposte agli interrogativi che continuiamo a porci da quando, 4 milioni di anni fa, nelle savane dell’Africa ci siamo alzati sulle zampe posteriori e abbiamo levato al cielo gli occhi ancora scimmieschi: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, qual è il senso di infiniti mondi, infiniti soli con infiniti pianeti, come diceva Giordano Bruno prima che lo incenerissero sul rogo.
Questa gente tranquilla, scienziati di ogni parte del mondo, ha iniziato a costruire questa macchina sbalorditiva 10 anni fa per un solo scopo: conoscere. Per 10 anni l’opera è andata avanti: prima la progettazione, poi la costruzione delle immense caverne, lungo l’anello, destinate ad accogliere i «rivelatori».
Atlas è un mostro: è alto come una palazzina di cinque piani e pesa 7 mila tonnellate perché è tutto fatto di rame, titanio, acciaio. Quando i progettisti hanno cominciato a rivolgersi alle industrie per costruire i pezzi, le risposte erano: impossibile. E invece ce l’hanno fatta riunendosi in pazzeschi «brain storm» con gli scienziati del Cern, disegnando il mostro pezzo per pezzo, dal sistema nervoso elettronico alle immani membra d’acciaio speciale. I pezzi sono poi stati trasportati con carrelli costruiti appositamente (nessuna macchina su ruote era mai stata concepita per simili pesi) e calati nella caverna con gru di spropositata potenza. Infine assemblati, montati, collegati, strato per strato, blocco per blocco, circuito per circuito.
Poi, finalmente, il gran giorno, nel 2008: l’Lhc va a regime, vengono sparati i fasci di particelle da far collidere e a un tratto il botto, il circuito salta, l’esperimento è interrotto. Che cosa è successo? «Ecco cosa è successo» mi dice Lucio Rossi, fisico di Piacenza. «Un corto circuito che ha sbrindellato i contatti, attorcigliato e bucato i corrugati di acciaio speciale che li contenevano, messo knock out il magnete».
Eccolo. Impressionante.
«Ma cos’è stato? Possibile che una macchina del genere non sia stata testata?». «Errore umano» risponde Rossi «un contatto farlocco». Il piacentino somiglia al bolognese e fra un po’ in mensa avrà luogo una dotta discussione se siano meglio i salami piacentini o modenesi. Quello che ho davanti è un pezzo di tubo d’acciaio che contiene i magneti che accelerano, curvano e strizzano i fasci di particelle (che tendono a divergere). Ogni pezzo è lungo 5 metri, pesa 7 tonnellate e sembra dritto, ma è leggermente curvato dal momento che saldando l’uno con l’altro si deve formare un anello che si chiuderà in 27 chilometri.
Rossi è un altro bel soggetto. Parla come un meccanico, anzi come un saldatore. In poche parole, quando si attacca un tubo all’altro si saldano con stagno e argento i contatti della piattina di superconduttore che fa passare l’energia. Se i contatti sono ben fatti, la resistenza che oppongono al passaggio della corrente è di 1 miliardesimo di Ohm e tutto è ok. Qui la saldatura opponeva una resistenza di 200 miliardesimi di Ohm, cioè niente; ma nei magneti l’elio liquido ha una temperatura inferiore al freddo cosmico, e l’aumento di temperatura è bastato per far saltare il circuito.
«L’errore umano può esserci, visto che qui dentro ci sono 60 mila contatti, l’errore vero è stato non prevedere il Mip (Maximum incident possibile) e mettere in atto i meccanismi di prevenzione che spengono subito l’impianto. Adesso non potrebbe più succedere». I pezzi danneggiati sono stati sostituiti ma non eliminati, qui non si butta niente; e Rossi mi mostra come procedono i lavori di ripristino dei pezzi danneggiati. I magneti riparati verranno tenuti di riserva.
La macchina è stata riavviata dopo un tour de force incredibile che ha visto tutti i membri dell’esperimento impegnati al limite della resistenza per riparare il guasto e ora sta girando ai bassi regimi (che significa comunque qualche milione di collisioni già registrate). Poi si arriverà alle alte energie, quando le particelle verranno accelerate fino a una velocità prossima a quella della luce. Si riprodurranno artificialmente le condizioni dei primi istanti dopo il Big bang e molte delle ipotesi formulate in questi 10 anni in cui l’impianto è stato fermo probabilmente cadranno, altre, forse, verranno confermate. L’aspettativa è grande.
La sala di controllo sembra quella di Houston: schermi al plasma riproducono la condizione di ogni singolo elemento della macchina vengono tenuti sotto osservazione 24 ore su 24 per turni di 8 ore. Un grande pannello è diviso in centinaia di led che devono essere tutti verdi. Se c’è qualcosa che non va s’accende una luce rossa. Ognuno svolge il suo lavoro, ognuno s’impegna al massimo: qui non c’è nessuno che non sia stato chiamato per il solo motivo che è in gamba ed è motivato. Non c’è null’altro che conti.
Le posizioni di prestigio che occupano gli scienziati italiani dipendono dalla loro consistenza scientifica e dalle loro capacità operative. Rappresentano anche l’interfaccia fra il Cern e il nostro Istituto nazionale per la fisica nucleare (Infn) che finanzia l’esperimento per la quota che ci compete, una delle maggiori. Se i finanziamenti dovessero essere ridotti, ne soffrirebbe uno dei nostri massimi punti di eccellenza, e le conseguenze potrebbero essere gravi. Va da sé che le ricadute sono tante e importanti anche se l’impianto non ha finalità di lucro. Il web è nato qui e così pure le macchine per la risonanza magnetica, tanto per fare un paio di esempi clamorosi. Per non parlare delle realizzazioni di avanguardia compiute dalle nostre imprese ad alta tecnologia.
Mi rendo conto che qui è un po’ come nella ricerca sulle origini della nostra civiltà: ci sono gli storici che lavorano soprattutto sul piano speculativo e gli archeologi che cercano testimonianze materiali. Ecco, i fisici teorici sono un po’ come gli storici, i ricercatori del Cern come gli archeologi: cercano le tracce materiali dei primi istanti del Big bang.
Le origini dell’universo. Stiamo parlando di eventi, di fenomeni in cui la mente di un uomo normale, come quella di chi stende faticosamente queste impressioni, si perde. Ma è su questo che verte la nostra conversazione a tavola. C’è qualcuno qui dentro che crede in Dio? «Come no?» risponde Rossi. Tonelli invece è di quelli che pensano che non ne abbiamo bisogno.
Cerco di venire al dunque: fra la particella più infinitesimale, il bosone di Higgs, e il nulla c’è un abisso infinitamente più grande di quanto non vi sia fra quella particella e mille universi... «Non si può parlare di nulla ma solo di vuoto» ribatte Tonelli. Sembra una questione di lana caprina, invece ha senso: uno spazio che verrà riempito da materia e tempo non può essere definito «nulla» a rigore di termini. «Ma allora all’inizio di tutto che cosa c’era?» insisto. «Energia» dice Rossi. E quando dice energia, credo di capire a che cosa sta pensando.
E il Big bang? Non potrebbe essere solo la deflagrazione di un intero universo collassato su se stesso una volta esaurita la spinta propulsiva di una precedente esplosione? Insomma una sorta di meccanismo titanico e infinito di esplosioni e implosioni? «No» risponde Tonelli. Il nostro universo non tornerà indietro. La velocità dei corpi non sta diminuendo, sta aumentando. Il nostro universo si disperderà nel vuoto e morirà di freddo.