Rosita Cavallaro, Il Messaggero 23/12/09, 23 dicembre 2009
«Mio padre Escobar, il re dei narcotrafficanti» - Una nuova identità, un nuovo Paese dove ricominciare e un buon lavoro da architetto in un attico di Buenos Aires
«Mio padre Escobar, il re dei narcotrafficanti» - Una nuova identità, un nuovo Paese dove ricominciare e un buon lavoro da architetto in un attico di Buenos Aires. Ma tutto questo può bastare per scrollarsi di dosso il romanzo di una vita intera? No, se si osserva bene Juan Sebastián Santos Marroquín. Perché nel suo caso la natura si è divertita a cucirgli addosso il nome di chi è figlio, dimenticando solo un dettaglio, i baffi. Lui è Juan Pablo Escobar, unico figlio maschio del più grande narcotrafficante di tutti i tempi. Pablito lo zar della coca, l’uomo che costruiva case, campi di calcio e donava soldi ai poveri. E con la stessa facilità mandava ad ammazzare, centinaia, migliaia di persone in una guerra senza fine che è ancora cronaca di oggi in Colombia. Escobar, un cognome scomodo? «Non lo rinnego ma fa parte del mio passato e di quello della Colombia. Sebastian Marroquín per me rappresenta il futuro». Futuro significa anche ritrovare un punto di incontro con il suo Paese e con le vittime di Pablo Escobar? «Dopo la morte di mio padre ho passato anni cercando di accettare tutto quanto è accaduto nella mia vita. Realizzare questo documentario, ”I peccati di mio padre’, mi è servito per scavare in fondo nella mia storia. Cercando un punto di equilibrio e un riavvicinamento con la società colombiana». Ritrovare in parte il suo Paese è stato possibile soprattutto grazie al perdono. «Non ho responsabilità penali per gli errori di mio padre. Moralmente, però, la nostra famiglia doveva rispondere per il dolore causato da Escobar». Come è stato il giorno dell’incontro con i figli di Galàn e Lara, il ministro e il candidato presidente che suo padre fece uccidere? «Emozionalmente, il momento più forte della mia vita. Nella parte finale del documentario si vede chiaramente. Quelle immagini, le espressioni, le smorfie, i movimenti parlano più delle parole. Non sapevo cosa dire entrando nella stanza. ”Buonasera’? Ma come puoi dire semplicemente ”buonasera’ ai figli degli uomini che tuo padre ha fatto assassinare?». Come è stata l’infanzia del figlio del narcotrafficante Escobar? «Agiatezza, benessere e tanta tristezza. Da piccolo passavo continuamente da un mondo fantastico a un altro violento in maniera troppo intensa per un bambino della mia età. Intorno a me ricordo morte e violenza. Mio padre provava a preservarci da tutto quel dolore ma purtroppo la violenza non discrimina. Ti raggiunge anche se scappi. A volte eravamo vittime e dovevamo nasconderci. In agguato c’era sempre la morte: tentativi di sequestro, attentati». La storia di Pablo Escobar finisce il 2 dicembre del 1993 quando grazie alla triangolazione radio la polizia colombiana riuscì a scoprire che si nascondeva a Medellin. Pare che tutto partì da una telefonata fatale che gli fece suo padre. « stato proprio così. Mi trovavo a Bogotà, lui mi chiamò infrangendo la sua regola d’oro, appunto quella di non parlare al telefono. Stavamo discutendo sulle risposte che avrei dovuto dare durante un’intervista. Poi ho attaccato. Dopo qualche minuto mi hanno detto che mio padre era morto». Escobar sapeva che sarebbe stato intercettato. Perché l’ha chiamata quel giorno? «Non era la prima volta, ultimamente lo faceva spesso e io gli riattaccavo il telefono in faccia. Volevo proteggerlo. Ancora oggi non so darmi una risposta». C’è chi ha dei dubbi sulla morte di suo padre e crede che sia ancora vivo in qualche parte del mondo. «Ci sono immagini sulla riapertura della tomba e poi Pablo Escobar non era uno di quegli uomini che scappano dalla propria storia». Cosa le ha lasciato e in cosa crede di somigliargli? «Mi ha passato tanti valori, sembra strano dirlo. Escobar, il padre e non il criminale, era quello che mi insegnava ad andare in bicicletta e che cantava le canzoni di Topolino per farmi ridere. Somiglianze caratteriali? Nessuna al di là dello specchio».