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 2009  dicembre 23 Mercoledì calendario

«Tommy, il mio angelo da lassù veglia anche sul suo papà in coma»- Tra i suoi migliori amici oggi ci sono tanti carabinieri, poliziotti e poliziot­te, qualche magistrato, persino l’eli­cotterista che per un mese intero sorvolò invano la zona

«Tommy, il mio angelo da lassù veglia anche sul suo papà in coma»- Tra i suoi migliori amici oggi ci sono tanti carabinieri, poliziotti e poliziot­te, qualche magistrato, persino l’eli­cotterista che per un mese intero sorvolò invano la zona... Gli stessi che quasi quat­tro anni fa, quando il piccolo Tommy sparì nel nulla la sera del 2 marzo 2006, strappa­to dal suo seggiolone durante la cena, la mi­sero sotto torchio, fecero di tutto per farla ca­dere in trappola, se la fecero ’amica’ per carpire una sua confessione. «Erano con­vinti fossi stata io, anche perché da poco e­rano successi i fatti di Cogne... Ora invece a­mici lo sono davve­ro, non mi lasciano sola, ogni notte pas­sa una pattuglia o di carabinieri o di po­lizia, così, per darmi sicurezza». Paola O­nofri oggi vive nella stessa casa di allora, isolata in mezzo a u­na campagna in cui - diresti - non può accadere nulla, tra campi arati a perdi­ta d’occhio e qualche lontana cascina qua e là: il posto più tranquillo del mondo. Gli oc­chi gelidi di quattro telecamere fissate ai muri di casa scrutano la stradina deserta e un cartello avverte, ’area videosorvegliata’. Ma è tardi, ormai. «Eravamo seduti a questo stesso tavolo per la cena – racconta la mamma di Tommy – io lì, mio marito Paolo di fronte, Sebastiano qua e Tommy accanto a me. Lo imboccavo e stavo per dargli il Tegretol, un farmaco an­tiepilettico, ma non feci in tempo: andò via la luce, Paolo aprì l’ingresso per scendere in cantina e rimbalzò all’interno, spinto indie­tro da due individui con il volto coperto. Nel buio fummo tutti e tre legati e costretti a ter­ra, così io non vidi che mi portavano via Tommy. Lo capii dal grido di Paolo e di Se­bastiano, che aveva solo otto anni ma vole­va difendere il fratellino». La prima a liberarsi fu proprio Paola, che corse fuori nella notte gridando il nome di Tommy, poi, come per oscura premonizione, bisbigliò disperata nel buio della campagna rimasta in silenzio: «Fi­glio mio, ci rivedremo altrove». Si saprà solo un mese dopo che si era trat­tato di un maldestro tentativo di sequestro lampo messo in atto da Mario Alessi e Sal­vatore Raimondi – due manovali che in quei giorni lavoravano nella casa degli Onofri ”, con la complicità di Antonella Conserva, compagna dell’Alessi. Dilettanti del crimi­ne, incapaci anche di delinquere, credeva­no che Paolo Ono­fri, direttore di un ufficio postale, po­tesse prelevare dal­le casse della Posta i soldi del riscatto: chiusero il piccoli­no in uno zaino e scapparono su uno scooter, ma subito dopo, spaventati dalle luci blu di una volante e dal pianto del bimbo, lo ucci­sero a colpi di scarponi e nascosero il suo corpo sotto sterco e paglia. «Gli inquirenti sospettavano di noi e li capi­sco, perché tutto in quel rapimento era a­nomalo – ricorda Paola in questo Natale, mentre addobba due alberi, uno per Seba­stiano e uno tutto per Tommy ”: i rapitori non ci avevano sottratto i cellulari, inoltre mi avevano legata così male che io mi ero libe­rata subito, e avevano comprato una Sim Card per noi in modo da poterci contattare di nascosto ma poi se l’erano dimenticata a casa... Gli investigatori sventrarono divani e materassi, imbrattarono di luminol tutta ca­sa per cercare tracce di sangue, il seggiolo­ne, il lettino di Tommy e la mia borsetta so­no tuttora sequestrati chissà dove – alza le spalle e sorride ”. Un mese dopo al telegiornale sentimmo che lo ave­vano trovato, morto. A condurli al corpicino era stato l’Alessi. Mio ma­rito corse fuori impazzito gridando ’No, no!’, io caddi svenuta». Avrebbe potuto odiare. Odiare i gior­nalisti che l’avevano assediata, i po­liziotti che aspettavano solo un suo passo falso, l’ispettore Fontana «che si fingeva confidente per farmi par­lare e che oggi mi vuole un gran be­ne », sorride di nuovo sgranando i due occhi azzurrissimi uguali a quelli di Tommy; e so­prattutto gli assassini, invece non lo ha mai fatto: «Io non so bene che cosa significhi o­diare, non so che cosa si provi, credo co­munque che si stia molto male, e che non serva a nulla se non a soffrire di più. Non ho ancora trovato la forza per perdonare, ma credo che sia già una bella cosa riuscire a non provare odio per chi ha fatto questo a un bambino come Tommy». Tutta Italia in quei giorni si fermò per quel bimbo bellissimo e innocente che aveva so­lo un anno e mezzo e aveva imparato appe­na tre parole: mamma, papà e mommo, la medicina. I funerali furono di Stato e un’ala di folla lunga cinquanta chilometri lo ac­compagnò al piccolo cimitero di montagna. Da allora la casa di Paola non è riuscita a contenere gli angioletti inviati da tutta Ita­lia, le casse di lettere, i quadri, le preghiere e poesie che ancora le arrivano da centinaia di sconosciuti, tanto che ha chiesto in pre­stito un magazzino in cui conservarli. «Tut­ti ci lasciamo sempre incantare dalla sua bel­lezza, ma è la sua anima grande a doverci stupire – afferma sicura ”. Il mio Tommy, un esserino tanto piccolo, ha saputo fare cose immense, a partire dalla grande fede che ha rafforzato in me. Io da quattro anni in qua ho imparato a vedere la vita nella sua verità, ho capito che è un bene prezioso e stupen­do ma che ce ne rendiamo conto solo quan­do una tragedia ce la porta via. Io prego tan­to, prego insieme al mio angioletto e questo oggi mi spinge a vivere meglio di un tempo, a essere più umana, anche più ottimista. Non sarò mai abbastanza grata a Tommy per ciò che mi ha fatto capire e per essermi accanto ogni istante...». I suoi ritmi continuano come un tempo, di­visa ancora tra il lavoro all’ufficio postale e i suoi doveri di mamma, accanto a Seba­stiano. «Spesso – spiega – mi chiedono co­me possa essere tanto serena, nessuno mi sentirà mai dire che Tommy non c’è, lui è qui con me, mi manca solo di abbracciarlo, toccarlo, ma parlo con lui... Non oso mai chiedergli sciocchezze o cose materiali, gli affido invece il dolore di tanta gente che si rivolge a me per avere aiuto. Gli dico sem­pre ’se puoi’, non pretendo, ma le sue pre­ghiere arrivano in alto più presto delle mie e spesso lui ottiene. Quando vado in crisi, perché non sono di ferro, Tommy mi dice ’guarda che io sono qua e non ti mollo, mamma’». C’è un altro bambino per cui Paola Onofri ha pianto e pregato, «si chiama Giuseppe e aveva solo sei anni quando in questa casa giocava con Tommy. L’ho rivisto nel proces­so all’Alessi e alla compagna, i suoi genito­ri. Costretto a deporre, raccontò che gli adulti gli avevano mentito: ’Mamma e papà mi a­vevano detto che andavano dal medico, in­vece erano a uccidere il mio amico Tomma­so’. Mi si strinse il cuore». Come le si strin­se, ma di speranza, tre mesi fa, al processo di secondo grado, «quando l’Alessi, alzando un indice verso il cielo, ha gridato alla ex compagna ’abbiamo fatto una cosa im­monda, per noi il Paradiso non c’è’. In quel momento in cuor mio ho detto grazie a Tommy: la via del pentimento è ancora lun­ga, ma io prego perché avvenga, so che un sacerdote e una suora lo seguono e potreb­bero aiutarlo». Il ’miracolo’ – invece – un altro, lo ha chie­sto spesso nell’ultimo anno a Tommy: «L’ho pregato di aiutare il suo papà, che è in stato vegetativo dall’agosto del 2008, quando il dolore gli ha crepato il cuore. Poi ho smes­so perché ho capito». Ha capito che «solo Dio sa qual è la verità, noi quando gli chie­diamo qualcosa ragioniamo con la nostra logica limitata. Secondo un’ottica umana u­na vita come quella di Paolo sembra non a­vere più un senso, ma che diritto abbiamo di giudicarla indegna? All’inizio i neurologi mi hanno spiegato che il suo cervello non e­siste più, che Paolo non sente nulla, eppure l’altro giorno, quando al telefono gli ho pas­sato Sebastiano che gli ha detto ’ciao, papi’, sul suo viso si è stampata l’espressione del pianto. E quando sono tornata da lui dopo dieci giorni di influenza, era come se cer­casse di parlarmi. Io non chiederei mai un accanimento terapeutico, ma nemmeno di togliergli la vita, l’ho detto anche a un con­vegno in cui mi hanno invitata a parlare sul caso di Eluana, presente il medico di Welby. Anche Paolo, come Eluana, non è attaccato ad alcuna spina, la sua vita è autonoma. E ha molto da insegnare». Ad esempio che «noi ci azzuffiamo per avere sempre di più e in­vece basta così poco per vivere dignitosa­mente – sorride e alza le spalle ”: ora a Pao­lo bastano una maglietta e un pannolone». Tutte cose che conosce da quando il suo bambino le è stato strappato nel più feroce dei modi, «perché il vero senso della vita lo scopri nella disgrazia, mentre sarebbe così facile pensarci prima e curarsi delle cose che valgono quando si è ancora in tempo». Tra le tante lettere di Natale ne sceglie una. Chi l’ha scritta ha inviato in regalo una bici da bambino, comprata con una colletta. So­no stati i detenuti di un carcere: «Vai, Seba­stiano, corri tu anche per noi».