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 2009  dicembre 23 Mercoledì calendario

Per Termini Imerese necessaria soluzione di sistema. Come nel 2004 - Fare tutto il possibile per non licenziare, ha detto il cardinale Severino Poletto, arcivescovo di Torino, esprimendosi con un linguaggio semplice, senza fronzoli, ma giungendo al cuore del problema

Per Termini Imerese necessaria soluzione di sistema. Come nel 2004 - Fare tutto il possibile per non licenziare, ha detto il cardinale Severino Poletto, arcivescovo di Torino, esprimendosi con un linguaggio semplice, senza fronzoli, ma giungendo al cuore del problema. Stato e mercato, valutazioni economico-finanziarie e valutazioni socio-economiche, interessi settoriali e interessi generali, profittabilità e responsabilità sociale, poteri pubblici e libertà di iniziativa della grande impresa multinazionale nel contesto della globalizzazione industriale e finanziaria mentre la crisi presenta i suoi pesanti effetti di lungo periodo: sono questi i titoli delle problematiche che la vicenda della Fiat di Termini Imerese e degli altri stabilimenti, in particolare di Pomigliano d’Arco, sottende. Ma anche, atteso il valore che ha l’apporto dell’uomo ai destini di un grande gruppo, ruolo del lavoro, partecipazione dei dipendenti alle sorti dell’azienda, tutela della loro opera da parte dell’impresa, soprattutto quando ciò può coincidere, sulla base di un intelligente e lungimirante piano industriale, con la redditività differita della produzione, con la preservazione di un patrimonio di esperienze, di professionalità, di abilità, di radicamento territoriale, di sintonia con le aspettative del Paese, non certo con le aspirazioni a un assistenzialismo di ritorno o a una surrettizia gepizzazione, che nessuno vuole in questa così complessa e dura vicenda. La quale, per certi aspetti, può essere la metafora della più generale condizione che l’Italia vive. Insomma, un passaggio post crisi, che non si lascia alle spalle i problemi indotti dalla crisi, la quale richiede uno sforzo convergente di pubblico e di privato, dell’impresa e dello Stato, senza che questo convergere possa essere criticato come dirigismo o come aiuto non ammissibile, ma allo stesso tempo senza che si possa contestare una asseritamente conculcata libertà di iniziativa economica o si possa considerare l’intervento pubblico come una costante assicurazione pro-futuro. Oggi c’è bisogno di entrambe le leve, quella pubblica e quella privata. Hanno agito così anche altri Paesi, che hanno praticato consistenti politiche di sostegno, senza che si sia potuto muovere loro critiche di violazione del mercato o di supergestione statalista. Siamo ancora, in presenza delle conseguenze della crisi e non si può fare a meno, per reagirvi, di un concorso di forze, pur nella specificità dei problemi dell’auto. Se si devono affrontare di petto – come avrebbe detto ieri Marchionne nell’incontro a Palazzo Chigi - i problemi del futuro degli stabilimenti Fiat in Italia e all’estero, se in Europa l’industria dell’auto soffre di una sovracapacità produttiva, se però la multinazionale torinese afferma di avere un piano ambizioso in Italia dove pensa di investire 8 miliardi in due anni, se è vero tutto ciò, allora non è che si possa concludere a priori che non vi è spazio per la salvaguardia dei livelli occupazionali e delle diverse realtà industriali alle quali è stata data vita a suo tempo sulla base di impegni dell’impresa, poi confermati, e dello Stato. Quando la Fiat conseguì, nel rapporto con le principali banche, il famoso convertendo, un vero e proprio salvataggio – mentre vi era chi, nel governo, non avrebbe visto male anche il fallimento della multinazionale e valutava negativamente lo sforzo, poi elogiato, della Banca d’Italia per una convergenza delle banche con lo scopo del recupero e del rilancio della Fiat - in effetti non avvenne, da parte di tutti gli attori, altro che un’operazione di bilanciamento tra prospettive di ripresa industriale e responsabilità di sistema, che certamente non danneggiava gli interessi dei singoli istituti di credito, ma riposizionava le aspettative dei ritorni per le aziende di credito in un più ampio arco temporale. Non è il caso di riprendere qui la ricorrente storia delle agevolazioni e degli incentivi di cui, in sostanza, ha fruito l’impresa torinese nei decenni, anche per non aprire il vaso di Pandora delle contestazioni e delle controdeduzioni (Marchionne rigetta la definizione della Fiat come azienda assistita dalla Stato) su ciò che la politica degli incentivi ha rappresentato. Ma, limitandoci all’operazione convertendo, quel che appare necessario oggi è, a parti modificate, lo stesso approccio. Non si tratta di inventarsi progetti per l’auto che dovessero risultare definitivamente in perdita; si tratta, invece, di esplorare tutte le vie della ricerca, dell’innovazione e della trasformazione, nella certezza di poter utilizzare un lavoro di elevata qualità, che nessuno finora ha messo in dubbio. Lo Stato e i poteri pubblici in genere devono fare la propria parte, a partire dal settore delle infrastrutture. Ma, prima di parlare di riconversione dello stabilimento di Termini Imerese e di sancire sin d’ora la fine della produzione di auto nel 2011, sarà bene valutare tutte le possibilità per un rilancio dello stabilimento, per superare quelle che sono state presentate come difficoltà strutturali e condizioni di svantaggio competitivo, dedicando a questa finalità il contributo della Regione Sicilia e dello Stato, oltre che di privati. Se, come ha detto il ministro Claudio Scajola, il piano Fiat conferma la centralità dell’impegno in Italia, e se, come lo stesso ministro ha precisato, non si può disperdere il polo industriale siciliano (e, si può aggiungere, vanno rilanciati gli altri stabilimenti), allora, con il senso di responsabilità delle istituzioni e delle parti sociali che Gianni Letta ha tenuto a sottolineare nell’incontro di ieri e con l’identica compenetrazione negli interessi generali che ci si attende dalla Fiat, vanno esplorate tutte le soluzioni, senza escludere l’attuale destinazione dell’impianto, per dare un futuro al polo in questione, per evitare di dismettere un centro produttivo nel Mezzogiorno. E occorre farlo tempestivamente. E ciò senza nulla togliere all’importanza di un impegno – se si confermasse solido e fondato – in tema di riconversione, con la prospettiva di un lungo avvenire, e di salvaguardia, che dovrebbe allora essere connessa, dei livelli occupazionali. Ma questa scelta costituisce un posterius, non un prius; mentre preventiva dovrebbe essere, a livello generale, la decisione di aprire un confronto in Parlamento sulle situazioni di crisi e di difficoltà per verificare tutte le possibili convergenze nella ricerca di soluzioni che riducano drasticamente gli impatti sociali e aprano a valide prospettive produttive.