Gianni Pittella, MilanoFinanza 23/12/2009, 23 dicembre 2009
Il fallimento di Copenhagen non diventi un alibi - Aveva visto giusto il presidente brasiliano Lula nell’affermare, poco prima della conclusione del vertice di Copenaghen, che il traguardo di un accordo vincolante poteva essere raggiunto solo se i Paesi si fossero assunti la responsabilità di rispettare i propri obiettivi e le nazioni ricche avessero realmente l’intenzione di aiutare quelle povere a dotarsi di fonti energetiche pulite
Il fallimento di Copenhagen non diventi un alibi - Aveva visto giusto il presidente brasiliano Lula nell’affermare, poco prima della conclusione del vertice di Copenaghen, che il traguardo di un accordo vincolante poteva essere raggiunto solo se i Paesi si fossero assunti la responsabilità di rispettare i propri obiettivi e le nazioni ricche avessero realmente l’intenzione di aiutare quelle povere a dotarsi di fonti energetiche pulite. Così non è stato ed il vertice si concluso con un nulla di fatto o quasi. Pagheremo certamente delle conseguenze per aver deciso di spostare nel tempo il rispetto di impegni vincolanti facendo finta di dimenticare che intanto la situazione del clima peggiora e ci ritroveremo al prossimo vertice con uno scenario ancora più critico. Copenhagen avrebbe dovuto rappresentare l’appuntamento per la ricerca di un accordo globale, a dieci anni dalla firma del Trattato di Kyoto, capace anche di ridisegnare le relazioni tra i Paesi condizionandole a concetti come quello di giustizia sociale. Non dimentichiamoci, infatti, che i Paesi poveri, soffrono più di tutti gli altri delle conseguenze del cambiamento climatico. Alla fine dei conti il summit mondiale da una parte ha dimostrato, se ancora ce ne fosse bisogno, che l’interdipendenza di tutti i Paesi richiede una governance globale, e dall’altro ha chiarito che se Stati Uniti e Cina non decidono di metterci la faccia allora non si va da nessuna parte. L’Ue adesso non può che continuare il percorso per raggiungere gli obiettivi prefissati, cioè ridurre del 20% le emissioni inquinanti entro il 2020, e aumentare al 20% il contributo delle energie rinnovabili nell’atmosfera. Rispetto a tali obiettivi si apre adesso una fase delicata perché si aggiunge una nuova variabile cui fare attenzione. Non dobbiamo lasciare spazio a coloro i quali, visto il flop di Copenaghen, sosterranno che senza l’impegno dei grandi Paesi quello dell’Europa risulterebbe inutile e oneroso in termini di competitività economica. Una tesi pericolosa che va smentita con una politica propositiva che sappia mettere l’accento sulle opportunità legate alla green economy. La svolta ambientale tanto attesa va legata infatti anche e soprattutto al mercato. Bisogna rafforzare l’idea che solo a una politica consapevole dei pericoli che corre l’ambiente e la società sono legati lo sviluppo dell’economia, la possibilità di creare nuovo lavoro, nuove imprese, insomma il miglioramento della capacità competitiva dei sistemi economici. La green economy appunto come principale misura anticiclica cui guardare rispetto alla crisi in atto. Efficienza energetica degli edifici, sostituzione delle automobili e degli elettrodomestici più inquinanti; l’aumento dell’energia da fonti rinnovabili, politiche efficienti nel settore del riciclo dei rifiuti sono solamente alcuni aspetti e idee che i governi europei dovrebbero inserire all’ordine del giorno della propria agenda politica. A vertice chiuso, bisogna ripartire con una motivazione ancora maggiore anche perché l’aspetto forse più brillante del summit danese sta nell’enorme mobilitazione della società civile a dimostrazione delle grandi attese riposte dall’opinione pubblica mondiale.