Filippo La Porta, il Riformista 22/12/2009, 22 dicembre 2009
Il lato oscuro dell’«italianissimo» Alberto da Voghera- Continua su quotidiani e magazine nazionali l’ "arbasineide", la dovuta celebrazione critica di Alberto Arbasino in occasione dell’uscita del Meridiano Mondadori
Il lato oscuro dell’«italianissimo» Alberto da Voghera- Continua su quotidiani e magazine nazionali l’ "arbasineide", la dovuta celebrazione critica di Alberto Arbasino in occasione dell’uscita del Meridiano Mondadori. Innumerevoli i punti di vista e le chiavi interpretative. Ma vorrei sommessamente chiedere: sicuri di averlo capito? A me pare che intorno alla sua opera si siano creati molti equivoci. Autore esterofilo e cosmopolita, passato in proverbio per la gita a Chiasso? Inesauribile, squisito cronista cultural-mondano? Sì, tutte queste cose insieme ma anche qualcos’altro. Credo che la sua influenza sulla nuova narrativa italiana, nelle vesti di silenzioso Convitato di Pietra, sia stata almeno pari a quella di Calvino. Da Tondelli e Busi fino ai romanzi di Lagioia. E, di più, una specie di mitologia para-arbasiniana si insinuava tra le file del Manifesto, già dagli anni 80 (quando ho cominciato a collaborarci) e di lì si riversava nel senso comune di tanta sinistra fieramente e snobisticamente radical, così come del successivo, pensoso ceto medio riflessivo. Da un certo punto in poi scrivere à-la Arbasino era diventato status symbol e inconfondibile sigillo di raffinatezza. «Sarà di destra o sarà di sinistra?», «Sarà avanzato o sarà arretrato?», «Sarà in o sarà out?», Le tipiche, estenuate domande retoriche del Nostro risuonavano stucchevolmente a migliaia in articoli e corsivi. E allora viene in mente quella spietata pagina di Certi romanzi, quando si dice che Fitzgerald «era adorato da narcisetti che gli danzano intorno mimandone nervosamente i giri di frase, inebriandosi dei suoi aggettivi come di etere». Già allora mi sembrava di dover difendere l’ Arbasino dai suoi adoratori! Rileggendo le pagine di questo Meridiano ho l’impressione che le recensioni non tengano abbastanza in considerazione the dark side ofthe moon, l’ombra funerea e indecifrabile che lascia dietro di sé la sua opera, ciò che nasconde o a cui appena allude per understatement. A volte questa elegantissima semi-rimozione, questo modo di eludere ogni rappresentazione troppo frontale dei propri demoni, può anche esasperare. Il punto è che la parte più rilevante dell’iceberg resta sott’acqua, appena accennata sulla superficie scintillante. Illettore però dovrebbe sempre tenerne conto. Arbasino è stato negli anni 60 un insostituibile mediatore culturale, assai più di Zolla (troppo mito grafico ) e Fortini (troppo tattico). Attraverso di lui si potevano conoscere non solo e non tanto strutturalismo e Nouveau Roman quanto la grande critica americana dei Wilson e Trilling, capace di «connettere il senso della ’commedia’ della vita umana alla consapevolezza dei principi». Poi, anche sulla scia di questi autori, ci ha fornito alcuni strumenti preziosi di critica della cultura. Fondamentale il recupero del concetto di midcult (Dwight Macdonald), sempre attualissimo, e allora applicato agli esempi pure sommi di Bergman e Antonioni: la cultura alta annacquata e travasata in contenitori demagogici, banalizzanti e pseudosofisticati. Trovate voi gli esempi nell’orizzonte letterario attuale. Nel suo acuto saggio introduttivo Raffele Manica osserva che Arbasino non racconta storie, piuttosto «allinea fatti, figure, idee». Vero, le idee sono la cosa che più lo appassioni, immutabili dietro le loro transeunti, vaporose maschere sociali. Sia chiaro: non gli manca certo l’attitudine mitopoietica del narratore. Parlando delle vecchie trattorie milanesi scrive con immagine dickensiana che quando si apre la porta «la nebbia della strada e dei cimiteri entra a mescolarsi al vapore del lesso». Più che metanarrativo lo definirei però ipernarrativo: a un certo punto si stanca di raccontare storie. Perché? Forse perché perché ne sa troppe (cd,e so tutte!», gridava giulivo un comico della trasmissione televisiva Zelig). E veniamo al dunque. Arbasino già a trent’anni ha letto e ascoltato e metabolizzato tutto. Ha discusso ogni ipotesi letteraria, ha stabilito qualsiasi connessione. Nei suoi libri la contemporaneità si ritrova già commentata come in una enciclopedia interdisciplinare o come in un dizionario concentrato. Si può entrare in Fratelli d’Italia da qualsiasi parte, per poi procedere per 10/20 pagine alla volta (questa è la mia esperienza personale di lettura): vi troverete sempre al centro, ma con un senso di smarrimento. Romanzo-rete più che romanzoconversazione, e anche in ciò anticipatore di poetiche e di tecnologie. Per un curioso ribaltamento di immagine Arbasino, proprio come tanta narrativa recente, mi appare autore italianissimo, assai più di quanto si ritenga. Euforico e disincantato, rassegnato e moralista, pragmatico e ricattato da un sentimentalismo incline alle lacrime (si legga la Provinciale, struggente raccontoapologo dall’Anonimo lombardo sulla purezza e sull’attrazione per il degrado), devoto al Piacere e a una terrestre, effimera felicità ma insidiato da una tentazione nichilista (si veda Leopardi sul carattere degli italiani), innamorato del belcanto perché sa che da noi il tragico non può esprimersi che come melodramma. Letterariamente poi è realistico e parodistico, tentato dalla mimesi (i calchi puntigliosi, esatti del parlato) e sublime virtuoso del manierismo (citazioni e pastiche), assai più prosatore che romanziere. La acre consapevolezza del fallimento (della Cultura? di una generazione di epigoni? dell’Esistenza?) di cui parla benissimo Manica, si converte in un’arte del vivere apparentemente sperimentale, e a tratti in una specie di eccitata coazione alla intelligentissima boutade. Non sottovaluterei l’aspetto di involontario autodafé dell’ opera arbasmiana, con I nschi che ciò comporta. Evitando poi a tutti i costi, e quasi ossessivamente, di annoiarsi - attraverso un febbrile nomadismo - si può anche diventare noiosi, almeno ogni tanto. Ma, come ho detto, quell’ opera va rigorosamente attraversata insieme all’ombra che sempre proietta.