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 2009  dicembre 22 Martedì calendario

Bilenchi, la lingua esemplare -  leggenda ma circola da oltre cinquant’anni: Romano Bilenchi scrive il migliore italiano del Novecento

Bilenchi, la lingua esemplare -  leggenda ma circola da oltre cinquant’anni: Romano Bilenchi scrive il migliore italiano del Novecento. Bisogna tuttavia intendersi: scrivono bene anche Landolfi, sempre, e Calvino, sempre più verso la fine, come d’altronde pure Fenoglio, i rondisti come per esempio Barilli e Savarese e i novecentisti come Bontempelli, scrittore ”a parete lascia”. In loro modo spastico scrivono benissimo ”parole con le gobbe” (le definizioni antagoniste sono di Moravia, italiano metallico ma perspicuo) gli espressionisti Gadda e D’Arrigo. Scrivono ”male” invece notoriamente Pirandello e Svevo, che hanno la lingua accidentata e straziata in virtù della quale però sono diventati i massimi narratori del loro secolo. Bilenchi che ha imparato a essere secco dagli ermetici ha una storia diversa: seguiva più propriamente lo inseguiva con correzioni maniacali un modello e l’ha trasformato in stile che è oro colato. E che sempre più splende al vertice se non della narrativa: altri sono i picchi più elevati della prosa italiana. Bilenchi è il nostro scrittore ”magro” per antonomasia, che è il contrario dello scrittore ”grasso”, come può essere Gadda, che la fa lunga (’il troppo e il vano non esiste”) perché deve dar conto delle angosce debordanti che partono da dove ha sede il male di vivere. Bilenchi invece le sue ansie le registra dalla superficie, dove gli bastano sempre meno parole per dire l’essenziale: la lingua che suggerisce più di quanto nomina realisticamente (ma c’è del realismo in questo ermetico). Negli Anni Trenta alle Giubbe Rosse, a Firenze si svolse dunque alla presenza di Palazzeschi e Montale il duello tra chi scende a guardare cosa fa l’inconscio e chi invece si affaccia dall’alto: dal burrone da cui Bilenchi avverte il sommovimento lontano, profondo e ricco di risonanze. Bilenchi è un perfetto strumento Geiger che avverte ogni più piccola scossa della sua anima: peraltro mai terremotata quanto quella di Tozzi, un narratore che non metteva il ghiaccio sui propri tormenti familiari, a differenza di Bilenchi che non faceva trapelare il segreto. lui il maggiore narratore ermetico? Più grande di Vittorini (Conversazione in Sicilia) e di Buzzati (Barnabo delle montagne)? Bilenchi è diventato un classico, senza essere stato mai uno scrittore neoclassico. La sua lingua adamantina tesaurizza la modernità e la conserva meglio dei narratori succubi dell’attualità. Il marmo si addice per levigatezza e freddezza alla prosa di Bilenchi. Non meno di quella gaddiana (Pasticciaccio a parte) la narrativa di Bilenchi si nutre della vita vissuta dallo scrittore, ma è l’autobiografia di uno che ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza nella provincia e campagna toscana e socialista (ad essa si ispirano alcuni dei più bei racconti: meglio i componimenti brevi che non l’opulento romanzo, Conservatorio di Santa Teresa?); è stato attratto dal fascismo in quanto latore di rivoluzione (il cosiddetto ”fascismo di sinistra”); e da comunista ha fatto la Resistenza, ha diretto nel dopoguerra ”Il Nuovo Corriere” e si è ribellato a Togliatti quando chiuse il giornale all’eretico. Nell’autobiografia di Bilenchi insomma la vita privata si intreccia con la storia dell’Italia contemporanea fino a confondersi: sulla stessa linea Svevo inchiodò la propria opera: «Autobiografia, ma non la mia». L’italiano che non dimentica la terra in cui è nato al progresso della fabbrica e al relativo smacco. Il particolare che aspira all’universale tende a una lingua asciutta che ha bruciato ”selvaggi” localismi strapaesani, espressionisti plurilinguismi, magici realismi e sperimentalismi di varia avanguardia. E allora trionfa l’italiano nel quale convergono tutte le periferie che si scambiano le più feconde parole di una nazione (tutte le strade conducono di nuovo in Toscana). Così ha trovato il centro (anche oltre analoga ambizione di Cardarelli) dal quale irradiare il sapere maturato nelle tragedie individuali e collettive uno scrittore che scalpella le parole non per i monumenti ma per le epigrafi. Bilenchi però non urla come Gadda. Il contadino ha fatto il callo alla siccità dei campi, alla miseria delle città, al gelo che uccide durante ogni guerra dell’esistenza. Giustamente Benedetta Centovalli, che in occasione del centenario della nascita e nel ventennale della morte ristampa in un grosso volume della Bur tutta l’opera di Romano Bilenchi (Opere complete, 1260 pagine, 26.50 euro) già da lei curata, annotata e introdotta con intelligente devozione, punta sull’infanzia come luogo e prospettiva privilegiati del narratore toscano. Efficace la formula ”inventare l’infanzia” per uno scrittore che fatica a riconoscersi nelle diverse stesure degli eventi che elabora e che quindi continua a cercare il ”mot just” senza il quale non sarà liberato il prigioniero che dall’interno strattona la frase. Non la parola che si incastona e luccica incalza Bilenchi, lui è contento o soffre quando ha stabilito un contatto con l’aldilà del significato emerso. L’autore delle raccolte di racconti, Il capofabbrica, Anna e Bruno e altri racconti, Gli anni impossibili si muove maestri Joyce e Tozzi nella quotidianità in attesa dell’epifania con cui si manifestano grappoli di emozioni o una singola rivelazione. Chiamatelo sminamento: quando meno te l’aspetti un’esplosione. Per la quale però ha inventato il silenziatore uno scrittore che non fa chiasso nemmeno con le più eclatanti tragedie. Semmai meritava maggiore risonanza l’evento: cento anni fa è pur sempre nato uno dei narratori che hanno dato migliore esempio al Novecento.