Sergio Rizzo, Corriere della Sera 22/12/2009; Renato Brunetta e Sergio Rizzo, Corriere della Sera 24/12/2009, 22 dicembre 2009
CLASS ACTION (IMPOSSIBILE) CONTRO LA MALA-BUROCRAZIA
Roberto Maroni era arrabbiato al punto che avrebbe voluto organizzare una class action contro Alitalia «per i danni causati alla diminuzione del traffico su Malpensa». Il forzista Giorgio Jannone l’avrebbe intentata invece non contro l’Alitalia, ma il governo italiano, «che è riuscito nel capolavoro di svendere Alitalia e prezzi irrisori». Furente, Maurizio Gasparri la minacciò, un’azione collettiva, durante l’emergenza rifiuti, addirittura contro il governo di Romano Prodi e la Regione Campania di Antonio Bassolino, «per chiedere i danni del disastro che hanno causato alla Campania e all’Italia ». Ivi inclusi quelli per «una insensata psicosi internazionale verso la mozzarella di bufala ». Con queste premesse ci saremmo dovuti attendere dal nuovo governo di centrodestra misure draconiane sul versante della class action, per mettere i cittadini in condizione di inchiodare la pubblica amministrazione inefficiente alle proprie responsabilità.
Ma la montagna ha partorito il classico topolino. Un risultato per arrivare al quale ci sono voluti ben sei anni, naturalmente da aggiungere ai «mille anni di ritardo» con cui, secondo il guru americano dei consumatori Ralph Nader, la class action sarebbe sbarcata in Italia. Oltre a dover superare, ha ammesso il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta, «difficoltà inenarrabili perché la cattiva burocrazia si sta difendendo». Piuttosto bene, a giudicare dagli esiti. La class action nei confronti della pubblica amministrazione semplicemente «non esiste», a sentire Paolo Landi dell’Adiconsum. Né è più tenero il giudizio di Rosario Trefiletti della Federconsumatori. Non è un mistero che la faccenda della class action sia stato uno dei terreni di contesa forse più aspri fra il ministro dell’Economia e il suo collega della Funzione pubblica. E questo perché Giulio Tremonti era risolutamente contrario ad aprire ai consumatori la porta delle azioni collettive anche contro lo Stato. I motivi? Troppo potere nelle mani dei giudici, per esempio. Per non parlare del rischio di paralisi dell’azione amministrativa e dei pericoli per i conti pubblici. Alla fine, l’ha spuntata lui.
Ecco quindi che chi, dal primo gennaio, vorrà promuovere una class action contro un’amministrazione inefficiente (ma sono esplicitamente escluse le authority, il Parlamento e gli altri organi costituzionali, i tribunali e la Presidenza del consiglio con tutti i suoi ministeri senza portafoglio) dovrà mettere in conto che per prima cosa non potrà chiedere nessun risarcimento. Allora a che cosa serve? Semplice: a «ripristinare la corretta erogazione di un servizio pubblico». Già, ma in che modo? Accertato il disservizio, il Tar dovrebbe ordinare all’ufficio inefficiente di cessare l’inefficienza. Ma se non obbedisce? In questo caso, dice il decreto legislativo Brunetta, approvato definitivamente giovedì scorso dal Consiglio dei ministri, «si applicano le disposizioni di cui all’articolo 27. comma 1, n. 4, del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054». Traduzione del geroglifico: ci pensa il Consiglio di Stato. E la cosa viene comunicata anche alla Autorità «antifannulloni ». E le sanzioni? Boh...
Ma c’è di più. Perché il decreto prevede che lo stesso meccanismo si applichi pure alle azioni collettive intentate contro i «concessionari di servizi pubblici»: come le Ferrovie o la Rai. Neanche verso queste sarebbe quindi possibile pretendere il risarcimento? Peccato che la legge Scajola di luglio, che ha regolamentato la class action nei confronti delle sole imprese private, contempla eccome la richiesta collettiva di danni nei confronti dei gestori di servizi pubblici. Quale dei due provvedimenti è quello buono? Poco importa, secondo Landi. Che invita a rilegge quella norma della legge Scajola, secondo cui in caso di accoglimento di una class action contro un’azienda di servizio pubblico (gas, acqua, luce, telefoni, trasporti...) «il tribunale tiene conto di quanto riconosciuto in favore degli utenti danneggiati nelle relativi carte dei servizi». Cioè? «Al massimo ti rimborsano il biglietto del tram...», commenta amaramente Landi.
2. LETTERA DI BRUNETTA A RIZZO E SUA RISPOSTA IL 24/12/2009 - Caro Direttore, la fretta, la superficialità e la voglia di credere subito a chiunque abbia un lamento da esprimere hanno condotto Sergio Rizzo a scrivere un articolo senza sentire il bisogno di studiare. Mi riferisco a quanto ha scritto sull’azione collettiva che, grazie ad una legge da me fortemente voluta, è adesso possibile intentare contro la pubblica amministrazione. Sarebbe bastato un colpo di telefono: le critiche di Rizzo sarebbero rimaste libere ma, almeno, più documentate. La legge sull’azione collettiva non cancella il resto del diritto e, pertanto, il cittadino danneggiato può comunque avviare una causa per risarcimento e il giudice concederla, ove ne ravvisi le condizioni. In moneta sonante. giurisprudenza consolidata, basta conoscerla. Così come è possibile avviare una causa essendo più di uno, o numerosi, gli attori. Succede già, senza il bisogno di nuove leggi. L’azione collettiva è indirizzata ad altro scopo. Si può criticarla, ma non a vanvera. Serve a fare in modo che il giudice amministrativo sia chiamato dapprima a valutare un disservizio, imponendo il ripristino della normale efficienza, e successivamente avvii una segnalazione all’autorità per la valutazione o a chi di competenza affinché i responsabili, a cominciare dai dirigenti, ne risentano personalmente. L’azione collettiva, insomma, va considerata assieme ai rimedi ordinari già riconosciuti e alla più generale riforma del lavoro pubblico. Così come va valutata assieme all’azione collettiva relativa al settore privato, nella quale sono ricomprese anche le società esercenti servizi pubblici. Sembra di capire che, secondo Rizzo, ci sarebbe in questo una contraddizione. A me sfugge. So solo che il governo Prodi volle esplicitamente escludere la pubblica amministrazione dal possibile ricorso collettivo, mentre noi abbiamo voluto includerla. Autorità, ministeri e tribunali sono esclusi, naturalmente, ma troverei imbarazzante anche solo dovere spiegare il perché: una cosa sono le istituzioni, un’altra l’amministrazione dei servizi ai cittadini. Attendo Rizzo in ogni momento, per spiegargli quanto qui non posso per ragioni di spazio. Sperando così non certo di convincerlo ma, almeno, di indirizzarlo a rilievi meno insufflati e più ragionati. Renato Brunetta
Già immaginiamo il terrore che, alla prima class action de noantri, si spargerà fra i responsabili di un disservizio pubblico. Pensate: il Tar gli imporrà di «ripristinare la normale efficienza»! E pensate: i malcapitati potranno essere deferiti all’Autorità per la valutazione, rischiando una ramanzina! Sorvoliamo sul prevedibile scaricabarile che gli eviterà persino quella: mancava il personale, i computer erano guasti, i moduli esauriti, le auto senza benzina... Sorvoliamo anche sulla clausola di salvaguardia per Presidenza del consiglio e tribunali, per quanto sull’affermazione che alcune istituzioni siano diverse da «amministrazioni dei servizi ai cittadini» ci sarebbe da discutere. Ma su una cosa non possiamo sorvolare. A che serve un’azione collettiva nei confronti della pubblica amministrazione inefficiente, senza che i suoi promotori possano impiegare l’arma tipica della class action (il risarcimento dei danni subìti), l’unica in grado di incutere qualche timore? Soltanto per indurre un giudice amministrativo, dopo una lunga istruttoria, a imporre ciò che il governo dovrebbe essere normalmente in grado di imporre in cinque minuti senza bisogno di ricorrere al Tar, cioè darci dei servizi decenti? Vigilare sull’efficienza degli uffici e dei servizi pubblici non spetta agli utenti, ma al governo. Per questo i cittadini pagano le tasse. Quanto al fatto che ognuno di noi può individualmente promuovere una causa e ottenere soddisfazione, lo sappiamo bene. Ma sappiamo pure, e dovrebbe saperlo anche Brunetta, che per avere giustizia in sede civile qui occorrono decenni: quando va bene. La class action, caro ministro, è un’altra cosa. Per questo, pur comprendendo la sua difesa d’ufficio, ci permettiamo di dargli un consiglio niente affatto superficiale: in ossequio ai principi di trasparenza che le sono tanto cari, almeno non la chiami «azione collettiva». Negli Stati Uniti, dove è stata inventata, e dove l’amministrazione federale ha appena pagato 1,4 miliardi di dollari per chiudere una class action intentata dalle tribù indiane che l’accusavano di aver gestito in modo disastroso le riserve, si metterebbero a ridere. Buone feste.