Marco Liera, Plus24 19/12/2009;, 19 dicembre 2009
IL FILO CHE LEGA LA CALIFORNIA ALLA GRECIA
«Chi di noi, chi di noi resisterà?». La domanda finale di una canzone di 30 anni fa di Renato Zero attraversa la finanza internazionale. Ce la farà l’Europa della moneta unica zavorrata dal crollo della Grecia e dai declassamenti di Irlanda, Spagna e Portogallo? O gli Usa con dieci stati a rischio crack, a partire dalla California che da sola ha un buco da 21 miliardi di dollari?
Il mercato, dopo mesi passati a scommettere su una maggior solidità dell’Europa, ha cambiato idea nelle ultime sedute, premiando il dollaro e punendo l’euro. La riflessione è sull’efficacia dei due modelli che sostengono euro e dollaro. Nel primo caso, l’unione monetaria è il risultato di una contrattualizzazione tra Paesi che politicamente e fiscalmente sono del tutto autonomi. Nel secondo, siamo in presenza di un vero Stato, con un solo bilancio consolidato e un’amministrazione politica e finanziaria in comune. L e modalità di trasmissione e di coordinamento delle misure di risanamento sono chiaramente più chiare e rapide negli Usa. Ma neppure negli Stati Uniti è del tutto prevedibile in che misura i costi del ripianamento dei debiti della California graveranno sui residenti del Golden State piuttosto che sulla generalità dei cittadini americani. Quanto all’Europa, va ricordato che mercoledì il ministro delle Finanze Wolfgang Schauble ha parlato di «rischi considerevoli » per la stabilità della zona euro, accusando la Grecia di «errori imperdonabili ». Affermazioni che suonano come un invito agli amici greci ad arrangiarsi da soli.
Per i risparmiatori di qualsiasi angolo del pianeta diventa sempre più importante tenere presente nei propri investimenti la variabile geofinanziaria- politica. La diversificazione internazionale degli impieghi è una risposta, ma occorre anche valutare l’opportunità di correre il rischio cambio. Vari studi testimoniano che sull’obbligazionario il rischio valutario non crea valore ed è difficilmente controllabile. Motivo per il quale di solito gli investitori istituzionali preferiscono coprirsi da questo rischio. Ma di fronte all’evento raro di collasso della moneta domestica, l’unica difesa sarebbe quella di detenere attivi in altre divise, con il cambio scoperto. Ne sanno qualcosa gli italiani (tutti, tranne quelli che avevano messo illecitamente i soldi in Svizzera) che negli anni 70 hanno subìto sui propri risparmi le svalutazioni della lira senza la possibilità di proteggersi.
La solidità della vecchia "liretta" non è paragonabile a quella dell’euro, si intende. Ma anche i piccoli risparmiatori sono assai interessati a come si modificheranno i rapporti di cambio da qui a tre, cinque, dieci anni. Chi si sarà difeso meglio? L’euro, il dollaro, il franco svizzero, lo yen o qualche valuta di Paesi emergenti? E le inevitabili variazioni dei rapporti di cambio che saranno intervenute saranno di taglio modesto o abissale?
Pur con tutti questi dubbi, la strada maestra resta quella di dotarsi di un portafoglio denominato nella stessa unità di conto delle proprie spese, o almeno della maggior parte di queste. Questa soluzione si basa sull’ipotesi di non cambiare in futuro residenza valutaria. E’ una prospettiva che vale per molti, ma non per tutti, che a sua volta si basa sull’ipotesi che il capitale umano possa spostarsi con molta più lentezza di quello finanziario. Ma nel lungo periodo il peso delle migrazioni, e la probabilità di farne parte, sono tutt’altro che trascurabili.