Pietro Citati, la Repubblica 20/12/2009, 20 dicembre 2009
A CHRISTMAS CAROL, LA RISATA DI DICKENS
Non amare Dickens è un peccato mortale: chi non lo ama, non ama nemmeno il romanzo; e non capisce che l´arte dell´Ottocento ha forse raggiunto il suo culmine quando ha mescolato il folle riso con la più imperterrita discesa nelle tenebre. Dostoevskij e Tolstoj, Conrad e Joyce, Kafka e Dylan Thomas lessero Dickens con la passione, l´entusiasmo e l´«incoerente gratitudine», che egli richiede da ciascuno di noi. Vissero insieme a lui; abitarono dentro di lui; e appresero da quel «rozzo romanziere popolare» i più sottili artifici letterari. Chi imparò da lui la tecnica del romanzo criminale, chi la presentazione dei personaggi, chi il gioco delle voci narrative, chi il dialogo fluviale; chi amò i «divini idioti» o i simboli o il calore analogico delle immagini. Tutti, in una parola, scorsero in Dickens un grande specchio - uno di quegli specchi incrinati e velati, che talvolta si trovano nelle soffitte - dove scoprire se stessi.
Se il secolo scorso fu un tempo di "mostri" letterari, Dickens fu il più misterioso di questi mostri. Comprendiamo le persone e i libri di Balzac e di Dostoevskij; ma quale figura fu più straordinaria e assurda di quella di Dickens? Nessuno possedette il suo fiducioso candore e la sua bonomia e nessuno fu più allucinato; nessuno conobbe come lui la vita colorata e felice di ogni giorno e nessuno si inoltrò con tale fervore nel regno delle tenebre; era luminosissimo e notturno; superficiale e profondo; abitava soltanto cogli uomini reali e parlava soltanto cogli spettri; era ingenuo e sapeva tutto; lieto e pieno di orrori; gioioso e divorato dalle ossessioni. Oggi, la qualità della sua immaginazione ci riesce stranissima. Nulla la distingueva da quella dei grandi creatori, Shakespeare o Cervantes; eppure era, al tempo stesso, la fantasia narcisistica ed euforica dei suoi giovinastri, la fantasia insaziabilmente ciarlante delle sue donne, la fantasia megalomane di Micawber, la fantasia cialtronesca dei mediocri guitti, dei burattinai, degli osti e dei vagabondi, che attraversano lo spazio affollatissimo dei suoi libri.
Così possiamo chiedere a Dickens le cose più contrastanti: i prodigi dei sogni e delle Mille e una notte e le più atroci volgarità giornalistiche. Un delizioso e sfacciato romanzo di burattini diventa sotto i nostri occhi un arduo romanzo simbolico; e dei pupazzi (o, come diceva Orwell, «delle piccole e scintillanti miniature, dipinte su dei coperchi di tabacchiera»), che ignorano qualsiasi legge psicologica, finiscono per rivelarci le più inquietanti verità del cuore. I suoi libri possono insegnare le astuzie più truculente ai romanzieri popolari; e le più rare astuzie letterarie agli scrittori sperimentali.
Nel 1843, quando aveva trentun anni, Dickens pubblicò Il canto di Natale, che in questi giorni la Walt Disney presenta nei cinema di tutto il mondo. La fortunatissima serie natalizia continuò: nel 1844, Le campane; nel 1845, Il grillo del focolare; nel 1848, La lotta per la vita e Lo stregato. Nel 1852, i cinque racconti vennero raccolti in una edizione complessiva, Libri di Natale.
Il protagonista del Canto di Natale era l´avarissimo Scrooge, «chiuso, controllato e solitario come un´ostrica». Nessuno era più freddo di lui. Il freddo che aveva dentro gli gelava il viso, gli affilava il naso appuntito, gli raggrinziva le gote, gli arrossava gli occhi, gli illividiva le labbra. Detestava le feste di Natale, i giorni in cui il mondo si scalda, si nutre, prende fuoco. Diceva: «Basta con il lieto Natale! Che cos´è in fin dei conti la ricorrenza di Natale, se non il giorno di pagare i conti senza aver soldi in tasca?»
La sera della vigilia di Natale Scrooge uscì dal suo ufficio. Gli orologi avevano appena battuto le tre, ma faceva già buio: non c´era stata luce durante l´intera giornata. Il freddo penetrava, mordeva, tagliava i visi. Il genio del freddo sedeva sulla soglia delle case in cupa meditazione. La nebbia penetrava da ogni fessura, da ogni buco di serratura, ed era tanto fitta che le case apparivano come fantasmi. Qualcuno andava in giro con le torce accese, per indicare la strada ai cavalli delle carrozze. La vecchia torre della chiesa diventò invisibile, e batté tra le nuvole le ore e i quarti con rintocchi prolungati e tremuli. Il professor Redlaw, un vecchio studioso di chimica, stava nascosto nella sua stanza appartata, per metà laboratorio e per metà biblioteca: solo, in mezzo ai propri strumenti e ai libri, con l´ombra che la lampada velata gettava sul muro come un mostruoso scarafaggio; immobile tra una folla di figure spettrali, suscitate dal guizzare del fuoco sugli oggetti che lo circondavano. Tutto era spettro, fantasma, figura stregata: gli spettri si congiungevano e si moltiplicavano, per minacciare definitivamente la vigilia di Natale.
Poi, tutto si capovolse. Il freddo, la tenebra, la nebbia, gli spettri, i fantasmi scomparvero. Persino il vecchio, avarissimo Scrooge ritrovò ogni siepe, ogni palo, ogni angolo, ogni strada, ogni ruscello della casa della sua infanzia. Scopri in se stesso il calore dell´immaginazione; e improvvisamente il suo cuore intirizzito si intiepidì e diventò affettuoso. Il nipote disse a voce alta: «Sono sicuro di aver sempre pensato al Natale, quando si avvicina, come a un giorno felice, un giorno d´allegria, di bontà, di gentilezza, di carità, d´indulgenza».
La vigilia di Natale diventò un paesaggio di negozi, di cucine, di fuoco, di riso, di fantasia. I negozi da pollivendolo erano aperti a metà, mentre quelli dei fruttivendoli raggiavano in tutto il loro splendore. Si vedevano castagne grandi, rotonde e panciute: rustiche cipolle spagnole di pelle bruna alzavano gli occhi al vischio appeso al soffitto. Vi erano pere e mele ammucchiate in alte piramidi appetitose; grappoli d´uva dondolavano da grossi ganci; mucchi di nocciole muschiose e brune, che con la loro fragranza facevano ricordare le passeggiate nei boschi; mele del Norfolk, grasse e scure, facevano risaltare il giallo degli aranci e dei limoni; uve passe, mandorle bianchissime, stecche di cannella; frutti canditi glassati e spruzzati di zucchero; fichi secchi succosi e polposi; e le modeste prugne francesi asprigne nelle loro cassette decoratissime.
Gli occhi dei passanti penetravano nelle cucine natalizie, dove si estendeva una luminosa collezione di coperchi lucenti, padelle pulitissime, lucidi scaldavivande, pentole splendenti. Nel caminetto il fuoco prese vigore, e bruciava alto e chiaro. Era il genio della cucina. Scoppiettava scintillando; a volte ruggiva come se volesse fare musica anche lui; a volte fiammeggiava, ammiccava, scherzava sui ciuffi d´agrifoglio; a volte il suo ardore si faceva turbolento, passava ogni limite, e con un sonoro fracasso buttava nella stanza una pioggia di innocue scintille, e nella sua esultanza saltava e ballava come un pazzo su per il largo, vecchio caminetto. Una calda luce rossastra imporporava la sala; e se il cuoco attizzava il fuoco, il cuore di tutti si inteneriva.
Un ospite chiese: «Che cos´è?» « uno stufato», rispose il cuoco schioccando le labbra, «dove ci sono delle interiora e un piede di manzo» (nuovo schiocco) «e la pancetta» (nuovo schiocco) e «delle fette di bue» (quarto schiocco), e «piselli, cavolfiori, patatine nuove ed asparagi, che cuociono tutti insieme in un sugo succulento». Con quale passione tutti mangiavano e bevevano. Non esiste scrittore, nel quale la gioia di mangiare, di nutrirsi, di appropriarsi il cibo, di trasformarlo in sangue, linfa vitale, carne, - sia così intenso come in Dickens.
Quando Dickens apriva il suo occhio dilatato, la realtà lo allietava sempre. Lo riempiva di una allegria furiosa, eccitava il suo estro e il suo genio, lo esaltava; qualche volta ci pare che nessuno si sia divertito tanto come lui a passeggiare sulla terra. Come avrebbe potuto annoiarsi, il giovane Dickens? Così carico di vitalità, così ardito, così prorompente di gioia, così irrispettoso, così felice di essere al mondo, di scrivere, di giocare con le immagini, di estrarre da sé una galleria interminabile di personaggi. A tratti una misteriosa ilarità lo attraversava, lo colmava, ed egli non riusciva a interromperla, quasi fosse stato percorso da una zampillante e scrosciante fontana di birra.
Amava le belle giornate, quando il sole è a picco nel cielo senza nuvole e i colori vibrano di felicità; i giovani col cuore leggero, la fantasia ardente, lo spirito elastico e il robusto appetito; soprattutto i giovani incoscienti e irresponsabili, che vivono alla giornata; tutti coloro che portano intorno il colore e il contagio della gioia. Non aveva rispetto per nessun valore costituito, nemmeno per quelli che esaltava; non sopportava la pomposa serietà e gravità degli adulti. Amava il riso dei poveri, nato dal candore, dalla miseria, dall´incontenibile allegria vitale; l´immaginazione che si prende gioco della realtà; tutte le forme della follia, di cui era così largamente dotato e di cui dotava così largamente i suoi personaggi. Amava i buoni, ma a patto che fossero buffi e ridicoli. Tra di loro prediligeva i vecchi putti, come i Cheeryble e i Boffin, questi canuti angioloni innocenti e furbeschi, questi folletti salterellanti e giocherellanti, che ficcano il naso dappertutto; e i dolci e infantili figli del Vangelo e di Don Chisciotte, i «poveri di spirito», i «divini idioti», gli infimi nella scala della ragione, ai quali qualcuno ha affidato il compito di salvare la terra.
Come diceva Chesterton, egli «dichiarò due cose essenziali sulla vita - che è risibile e che è vivibile... Il merito del mondo non era, per lui, di essere ordinato e spiegabile; ma di essere selvaggio e completamente inesplicato. Il merito del mondo era precisamente che nessuno di noi avrebbe mai potuto concepire una simile cosa, che noi ne avremmo rifiutato la semplice idea come un miracolo e un´assurdità. Esso era il migliore dei mondi impossibili».
P. S. I racconti di Natale sono pubblicati dalla Bur (traduzione di Maria Luisa Fehr, introduzione di Stefan Zweig, 448 pagine, 13 euro).