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 2009  dicembre 20 Domenica calendario

L’intervista all’onorevole Rober­to Cota pubblicata ieri dal Cor­riere dà la misura di quanto la Lega, o almeno una parte del suo gruppo dirigente, si siano lasciati alle spalle certi atteggiamenti violente­mente antirisorgimentali di un tempo

L’intervista all’onorevole Rober­to Cota pubblicata ieri dal Cor­riere dà la misura di quanto la Lega, o almeno una parte del suo gruppo dirigente, si siano lasciati alle spalle certi atteggiamenti violente­mente antirisorgimentali di un tempo. E dà anche la misura, nel caso dell’esponente le­ghista intervistato, di una capacità di citare fatti ed episodi della storia italiana che appa­re abbastanza rara nel nostro ceto politico. Detto questo, va pure aggiunto che quei fatti e quegli episodi, da soli, finiscono col dare un quadro del processo costitutivo dello Sta­to nazionale molto parziale e distorto. Pren­diamo quel che nell’intervista si dice di Ca­vour. Ci sono pochi dubbi sul fatto che il pri­mo ministro piemontese, come afferma Cota, inizialmente non puntasse affatto all’unifica­zione italiana: nel 1856 la definiva «una cor­belleria » e, due anni dopo, lui e Napoleone III accordandosi per la guerra all’Austria preve­devano un’Italia ancora divisa in quattro Stati (in questa ipotesi il Piemonte si sarebbe allar­gato a Emilia-Romagna e Lombardo-Veneto). Senonché, e questa è la parte della storia che Cota non cita, quando gli avvenimenti del 1859-60 cambiarono radicalmente il qua­dro delle possibilità, Cavour mostrò una ecce­zionale capacità di reagire in modo tempesti­vo al mutare delle situazioni e fece sua l’ipote­si unitaria che era stata per decenni agitata da un quasi completamente inascoltato Maz­zini. Lo fece perché il quadro di un Regno di Sardegna allargato non era più tra le ipotesi reali; perché si trattava di eliminare il rischio che l’indipendenza e l’unificazione prendesse­ro – dopo i successi di Garibaldi – una colo­ritura democratica e antimonarchica; ma lo fece anche perché convinto che quanto stava avvenendo rappresentava per le popolazioni della penisola l’occasione probabilmente irri­petibile per entrare nella modernità, quale ai suoi occhi si era andata affermando in Fran­cia e in Inghilterra. Un altro fatto riferito da Cota solo a metà è il piano di Cavour «per trasformare l’Italia in uno Stato federale». In realtà, considerare Ca­vour come un federalista è sbagliato. vero però che lui e tutta la classe dirigente liberale del tempo ammiravano il self-government in­glese e avrebbero voluto dunque attuare nel nuovo Regno d’Italia un sistema di decentra­mento amministrativo (i progetti Minghetti del 1860 cui faceva ieri riferimento l’esponen­te leghista). Fu la situazione che si venne subi­to a creare nel Mezzogiorno – con il brigan­taggio che lasciava intravvedere il pericolo di una restaurazione borbonica – che costrinse quei liberali ad abbandonare ogni ipotesi del genere. Più in generale, la nascita dello Stato italia­no si fondò su una «violenza fatta al Sud», come afferma sia pure di sfuggita l’onorevo­le Cota e come prima di lui hanno sostenuto in tanti? A parte la repressione del brigantag­gio che certo fu violenta (anche perché aveva di fronte un avversario che applicava metodi non meno feroci), l’idea che il Sud sia stato vittima di una specie di conquista coloniale, e che tale conquista abbia asservito al Nord un’economia meridionale altrimenti fioren­te, bloccandone irrimediabilmente lo svilup­po, circola da anni e in passato ha suggestio­nato anche qualche storico. Ma un’opinione del genere non ha vero fondamento, anzitut­to in considerazione del livello di estrema ar­retratezza del Mezzogiorno già al momento dell’unificazione: un’arretratezza economica non smentita dalle rare industrie e che affon­dava le sue radici nei secoli precedenti; e una più generale arretratezza culturale testimo­niata da tassi di analfabetismo fra l’80 e il 90%, dunque di livello extraeuropeo. Una ta­le arretratezza molti meridionali la conosce­vano perfettamente: era proprio questa cono­scenza che li spingeva ad auspicare un inter­vento modernizzatore dello Stato, per fare entrare – a forza se necessario – le loro ter­re nella civiltà europea sottraendole a un de­stino mediterraneo-africano. anche per questo che tanti liberali meridionali furono statalisti in un modo perfino intransigente, sviluppando quella che Silvio Spaventa chia­mò una «adorazione» per lo Stato. Il problema vero e principale del Sud, al momento dell’unificazione, era dunque rap­presentato dalla sua arretratezza, non dal fat­to d’essere stato «conquistato» dai piemonte­si. E se ancora oggi, 150 anni dopo, ci trovia­mo a dover fare i conti – pur con tutte le differenze e novità subentrate nel frattempo – con una «questione meridionale» che ap­pare ineliminabile, occorrerà cercarne cause e responsabilità in tempi assai più vicini di quel 1860 in cui Garibaldi partì da Quarto.