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 2009  dicembre 20 Domenica calendario

USA, IL DNA CHE SALVA DAL PATIBOLO

Avrebbe tutto il diritto e le ragioni per esserlo. Eppu­re, James Bain giura di «non essere ar­rabbiato », perché con lui ha «avuto sempre la fede». Ha 54 anni oggi, l’afroamericano della Polk County, in Florida. E gli ultimi 35 li ha passati in carcere. Ingiustamente. Non fu lui a ra­pire e violentare nel 1974 un povero ragazzino di 9 anni. Ma fu lui, nean­che ventenne, a essere accusato del crimine e condannato all’ergastolo.

Il suo incubo ultradecennale è fini­to giovedì mattina, quando Bain è sta­to rilasciato dal carcere su ordine di un giudice, dopo che il test del Dna ha provato la sua completa estraneità al delitto. Bain è il detenuto numero 248 che negli Stati Uniti si vede restituire la libertà, grazie alla prova del codice genetico. Ma è quello che ha trascorso più tempo dietro le sbarre, prima che la giustizia finalmente trionfasse.

Un applauso ha accolto l’annuncio del magistrato James Yancey, che ne ha disposto la scarcerazione, mentre gli amici e i familiari presenti nell’aula del Tribunale della Polk County lo cir­condavano e abbracciavano. «Era il momento giusto, perché Dio mi libe­rasse da questa storia. Ho dovuto sol­tanto portare pazienza», ha detto Ba­in, che indossava una t-shirt nera con la scritta «Not Guilty».

«Nulla potrà restituirgli gli anni per­duti, ma questo è il giorno della rina­scita: è uscito da quell’aula a testa al­ta, da uomo libero», è stato il com­mento di Seth Miller, l’avvocata di In­nocence Project , l’organizzazione non profit che ha sostenuto la causa. Gra­zie a una legge della Florida approvata lo scorso anno, James Bain ha ora dirit­to a un risarcimento di 1,75 milioni di dollari, calcolato in base al numero di anni erroneamente trascorsi in prigio­ne.

Creato agli inizi degli Anni Novan­ta, quando la tecnica della rilevazione del Dna era ancora agli albori, l’Inno­cence Project ha oggi uffici in tutti i 50 Stati dell’Unione e opera con un bud­get di 6 milioni di dollari, tutti prove­nienti da fondazioni e contributi priva­ti. I detenuti i cui casi vengono presi in esame non pagano onorari, né l’or­ganizzazione incassa alcun provento dagli eventuali risarcimenti dopo la scarcerazione. I test del Dna vengono pagati dagli Stati, aiutati da 15 milioni di dollari dei fondi federali. Il ruolo de­gli avvocati di Innocence Project è spesso decisivo. Nel caso di Bain, per esempio, il condannato aveva cercato per ben quattro volte senza successo di convincere i giudici ad ammettere il test del codice genetico. Solo, quan­do i legali non profit hanno costruito un argomento senza smagliature, la prova è stata ammessa.

«Hanno salvato la mia vita», dice Ki­rk Bloodswort, oggi cinquantenne, che nel 1993 fu il primo condannato a morte strappato alla sedia elettrica dal­la prova del codice genetico. Bloo­dsworth aveva ricevuto la pena capita­le, per lo stupro e l’omicidio di una bambina di nove anni a Baltimora. Dalla prigione Bloodsworth chiese che le prove contro di lui venissero esaminate. All’inizio gli dissero che quella decisiva, le tracce di seme uma­no sui vestiti della vittima, era stata di­strutta. Poi, grazie alle pressioni di In­nocence Project , la prova riapparve mi­steriosamente.

Immediatamente prima di James Ba­in, meno di un mese fa era stato Do­nald Eugene Gates a essere discolpato e rimesso in libertà grazie al codice ge­netico.

Originario dell’Ohio, era stato condannato all’ergastolo nel 1981 per aver violentato e ucciso una ragazza ventenne nel Rock Creek Park di Washington DC. Un tecnico del Fbi, il cui lavoro si è poi dimostrato fallace, aveva sostenuto che tracce genetiche di Gates erano state trovate sul corpo della vittima. Non era vero. Ma prima che il test del Dna provasse inconfuta­bilmente la sua innocenza e il 25 no­vembre scorso un giudice ordinasse il suo rilascio da una prigione di massi­ma sicurezza dell’Arizona, Gates si è fatto 28 anni di galera, il record prima che Bain superasse la barra dei 35.