Ferruccio Sansa, La Stampa 18/12/2009, 18 dicembre 2009
LA PARROCCHIA DOVE LA MESSA RICOMINCIA IN CINESE
Yi fu ji zi sheng shen, amen». Ad ascoltare a occhi chiusi, ti senti catapultato a migliaia di chilometri: in Cina. Allora ti guardi intorno, ritrovi il crocifisso, le reliquie, il presepe. Ma la confusione resta: sei nel Santuario di Santa Liberata, a Cerreto Guidi, in Val d’Elsa. Il sacerdote ripete gesti che hai visto mille volte, «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, amen», ma parla cinese e i venti fedeli sono tutti orientali.
Ci vuole qualche secondo per orientarsi: la geografia delle mappe non coincide con quella del cuore. Luoghi e confini si mischiano come carte da gioco.
Sono le due e mezzo. Come ogni domenica, don Pietro Du, sacerdote cinese di 39 anni, dice messa in mandarino. Sorpresa: i fedeli cinesi non mancano, anzi, sono più numerosi di quelli che assistono a tante messe in italiano. «Arrivano sempre puntuali», sorride Federico Conti dal Ciabarà, il bar sul sagrato. Chi l’avrebbe detto: ci sono cattolici anche in uno degli ultimi baluardi del comunismo, tra quegli immigrati che ormai da queste parti sono di casa. Una strana convivenza: «Non danno problemi, lavorano sempre. Ma di loro non sappiamo niente - racconta Elvira Piazza -. Parlano la loro lingua, non si mischiano con noi. difficile capire che cosa pensino. Chi avrebbe immaginato che credessero in Dio».
Eppure, ad ascoltare la Messa, lentamente ti sembra di capire. Ti aiutano i gesti del sacerdote e poi quei nomi familiari che fanno capolino in mezzo a parole orientali. Alla fine non ti senti estraneo. Osservi i fedeli e cerchi di indovinare le loro preghiere rivolte a persone e luoghi che a stento puoi immaginare. «La funzione in cinese? A noi non disgarba affatto», sussurra Emilio Palazzesi, il custode del santuario.
La messa è finita, i fedeli escono. Molti i giovani. Ma appena sul sagrato di nuovo varcano il confine: se provi ad avvicinarli, la comunicazione non è semplice. «Scusa, no parla italiano», rispondono. Soltanto Xiao spiccica due parole: «I cattolici ci sono anche in Cina. Io vengo dal Sud, vicino a Hong Kong, e sono emigrato portandomi la mia fede. La Chiesa mi fa sentire a casa anche qui». Ma è difficile essere cristiani nel vostro Paese? Xiao sale in auto e ritorna nel suo mondo, senza rispondere.
don Pietro Du a raccontare: «I cinesi cattolici sono molti, ma finora qui non avevano una loro Messa. E ne arriveranno altre: ci sono già dieci diaconi cinesi in Veneto, Lombardia e Toscana. I cinesi immigrati aumentano e i cattolici non mancano. Molti provengono da famiglie cattoliche da generazioni, nonostante le difficoltà». Don Pietro scommette: «C’è anche chi si converte in Italia, abbiamo avuto quattro battesimi».
La Chiesa, il catechismo, sono due brecce nel muro tra cinesi e italiani. L’altra è la scuola: alle otto di mattina, nei vicoli del borgo mediceo, risuonano passi di bambini. Davanti alla scuola Leonardo da Vinci le voci sono tutte uguali, italiani e cinesi parlano un fiorentino che farebbe invidia a Manzoni.
Non è tutto semplice. «Nella frazione di Stabbia, dove si concentra la comunità cinese (700 abitanti su 10500, n.d.r.), un condominio su due è loro - sospira Katia Domenici -. E’ un paese fantasma, se suoni al campanello non ti rispondono. Niente nome sulle cassette della posta». Vivono e lavorano, spesso nella casa di due stanze, una per dormire, l’altra per lavorare. O addirittura nei capannoni. La domenica emergono per le strade: in un censimento fai da te, d’accordo, su 50 persone 27 sono cinesi. Marta Pollina, dietro il bancone del «Circolo XXIII agosto», osserva la sala: da una parte gli anziani del luogo con le carte, dall’altra i cinesi ai videopoker. Si salutano, non si parlano.
Una convivenza pacifica, ma complessa. Il sindaco di Cerreto, Carlo Tempesti (Pd), non nasconde i problemi, ma ha un progetto: «Noi facciamo controlli, ma lavoriamo per l’integrazione. Non vuol dire pretendere che i cinesi diventino italiani. Anche gli italiani in America erano una comunità con la propria identità e rapporti con la patria». Il confine invisibile, però, è difficile da superare: «Noi insegniamo l’italiano ai cinesi, ma facciamo corsi di cinese per italiani». Insomma, il muro deve essere superato dalle due parti. Anche perché, senza gli orientali, l’economia della Val d’Elsa si fermerebbe: le industrie di pregio che confezionano gli abiti sono italiane, ma la trasformazione dei tessuti è cinese.
«Ci colonizzano in silenzio», scrolla le spalle Maria Fantoni. L’insofferenza cresce. Il sindaco non lo nasconde: «In Val d’Elsa il 9,7% dei 170 mila abitanti sono immigrati. A volte mi tocca combattere anche nel Pd, gli atteggiamenti leghisti pagano di più».
La Val d’Elsa, però, vuole essere un laboratorio di integrazione a doppio senso. Mentre arrivano i cinesi, a Pechino va in visita l’«Ercole» del Guercino del museo di Villa Medici. E’ mattina, una coppia di cinesi cammina nel parco: sono nati sul Fiume Giallo, ma sullo sfondo delle foto del loro matrimonio c’è Firenze.