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 2009  dicembre 18 Venerdì calendario

LETTERE

Ho pensato di inoltrare a lei la corrispondenza con l’amico e collega Frank Grossi. Frank, vecchio e battagliero avvocato americano, dà una lettura un po’ meno superficiale del nostro sistema di giustizia penale; una lettura che probabilmente non suscita grandi simpatie al di là dell’oceano. Chissà che la sua opinione non riesca a trovare spazio, nonostante l’ostacolo della lingua, sulla sua rubrica.
Luca Ferrari
luca.ferrari@cbalex.it

Caro Ferrari,
Lei ci ha mandato con la sua lettera due lunghi testi. Il primo è un arti­colo di Liz Robbins apparso nel New York Times del 5 di­cembre sotto il titolo «Un’americana nell’ingra­naggio della giustizia italia­na ». Il secondo è la risposta di un avvocato italo-america­no, Frank Grossi, che il quo­tidiano, tuttavia, non avreb­be pubblicato. I due testi so­no troppo lunghi per essere pubblicati integralmente, ma sono entrambi interes­santi. Cercherò di riassumer­li.
Robbins descrive il proces­so di Perugia e ricorda le maggiori critiche sollevate dagli osservatori americani: troppo lungo, troppo indizia­rio, troppo mediatico, trop­po pregiudizialmente fonda­to sul ritratto morale di Amanda Knox, troppo in­fluenzato dai sentimenti e dalle emozioni della pubbli­ca opinione. Inframmezzati nell’articolo vi sono i pareri di due personalità america­ne: il professore George P. Fletcher della Columbia Uni­versity di New York, e Alan Dershowitz, avvocato e pro­fessore universitario, molto noto tra l’altro per il suo ruo­lo nel caso von Bülow, una delle più famose e discusse vicende giudiziarie america­ne degli ultimi anni (ne fece­ro un film). Fletcher non ri­tiene che la sentenza di Peru­gia nasconda sentimenti an­ti- americani, ma la conside­ra «uno scandalo di prima grandezza» e la spiega soste­nendo che il nostro sistema giudiziario non ha «adattato correttamente» il sistema giudiziario americano: una frase da cui si desume che la giustizia degli Stati Uniti do­vrebbe essere un modello di riferimento per la giustizia di altri Paesi. Dershowitz, in­vece, sembra essere più in­formato. Conosce il ruolo dei giudici popolari nel no­stro processo e ricorda che il sistema italiano dell’appello, diverso da quello america­no, potrebbe giovare ad Amanda Knox: perché il pro­cesso, in quella sede, «va più a fondo» (more probing).
Il testo di Frank Grossi in­vece è un’appassionata arrin­ga per la difesa del sistema giudiziario italiano. L’autore ricorda che il processo con­tro O. J. Simpson (il giocato­re nero accusato di avere uc­ciso la moglie e il suo aman­te) durò quindici mesi e ter­minò con una discutibile as­soluzione. Anche negli Stati Uniti, continua Frank Gros­si, si celebrano processi indi­ziari. E anche negli Stati Uni­ti la giuria tiene conto delle caratteristiche morali del­l’imputato. Ma la stoccata più penetrante concerne il reclutamento dei giudici nei due Paesi. Mentre quelli de­gli Stati Uniti possono essere eletti con campagne elettora­li finanziate dagli avvocati che dovranno patrocinare nei loro tribunali, i magistra­ti italiani sono scelti con dif­ficili concorsi. Non basta. Le sentenze italiane vengono accuratamente motivate e so­no generalmente più umane di quelle emanate negli Stati Uniti. Se fosse stata condan­nata in America, conclude Frank Grossi, Amanda Knox avrebbe rischiato la sedia elettrica.
Aggiungo, caro Ferrari, che ho letto l’arringa di Frank Grossi con molto pia­cere, ma anche con un picco­lo timore. Non vorrei che desse a qualche nostro magi­strato l’occasione per soste­nere che il nostro sistema non ha bisogno di riforme.