Varie, 18 dicembre 2009
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Foreman Yuri
• Gomel (Bielorussia) 5 agosto 1980. Pugile. Il 14 novembre 2009 conquistò a Las Vegas il titolo mondiale Wbo dei superwelters battendo il portoricano Daniel Santos ai punti in 12 riprese (verdetto unanime, 116-110, 117-109, 117-109), il 6 giugno 2010 lo perse allo Yankee Stadium di New York contro il portoricano Miguel Angel Cotto (kot al 9° round) • «Tutti i pugili pregano. Per la vita e per la borsa. Ma lui lo fa per professione. Un pugile che ti stende mentre studia la Torah non s’era mai visto. Il ring non è posto da rabbini, non è religioso fare male a se stessi e agli altri. ”Basta con i falsi stereotipi. Gli ebrei sono visti come esseri fragili, vittime ideali, gente intellettuale, che lavora in banca o da avvocato, dal fisico sgraziato e disgraziato, che non sa combattere. La nostra immagine, dagli anni Venti-Trenta, è quella di un popolo passivo. Io voglio restare in piedi e cambiare tutto questo”. [...] studia [...] il Talmud alla scuola Iyyun, a Brooklyn, con il rabbino Dovber Pinson. [...] combatte con la stella di David ricamata su accappatoio e calzoncini. ”Sono nato a Gomel, in Bielorussia, figlio unico, a sette anni ho iniziato a praticare il nuoto, ma vivevamo accanto a Chernobyl, e quando è scoppiato il reattore ci hanno evacuato in Estonia per tre mesi. Quando sono rientrato i commenti antisemitici degli altri ragazzini mi hanno impedito di tornare in piscina, mia madre allora mi ha iscritto al pugilato e me ne sono innamorato. Anche perché mi ha permesso di dare una lezione ai bulli. Nel ”91 siamo emigrati in Israele, ma le cose non sono migliorate. Lì non ci sono posti per fare boxe, mancano le palestre, non è uno sport popolare, preferiscono calcio e basket. Vivevamo a Haifa e per allenarmi andavo nei territori occupati, nonostante i check-point, i pericoli e le difficoltà burocratiche, perché invece agli arabi il pugilato piace tantissimo. Ma ne ho prese di botte, tutti i palestinesi mi guardavano con odio e volevano dare una lezione, anzi una punizione, al ragazzino ebreo. Si sa che la boxe serve per regolare altri conti e per farsi rispettare. Però una sera sono tornato a casa e ho detto a papà che volevo andare in America. Era il 2000, avevo 19 anni, non ero molto religioso, e stravedevo per Mike Tyson, lo so un’altra contraddizione, perché nella vita è un tipo che ha sbagliato tutto”. A New York frequenta la mitica Gleason’s Gym, quella di ”Million Dollar Baby”. E lì incontra Leyla Leidecker, ungherese, diventata ebrea nel 2006, ex modella, pugile dilettante, che gli suggerisce di studiare la kabbalah. ”Io lavoravo dalle 9 alle 6 del pomeriggio, consegnavo vestiti, e poi andavo ad allenarmi. Confesso che sono entrato in crisi, volevo mollare il ring, non ce la facevo più. Ma quando me ne sono andato da Israele molti amici mi hanno detto: vedrai, ritornerai. E io non volevo tornare indietro da ebreo sconfitto. Tengo duro anche a scuola di religione, ma il Shulchan Aruch è difficile e l’aramaico incomprensibile, bisogna studiare il codice delle leggi: quale mano ti lavi prima quando ti svegli, cosa mangiare, come comportarsi con tua moglie. Tutti i combattimenti sono di sabato, ma dopo le nove di sera, quindi io osservo il riposo e prego, recito i salmi, anche prima di salire sul ring. Spengo il cellulare e se il sole non è calato mi rifiuto di andare a combattere. La comunità ebrea mi ha appoggiato, anche se in molti mi spingono a decidere. A me piacerebbe un giorno tornare in Russia ad aiutare i bambini e avere una mia comunità”. Il rabbino Joseph Potasnik, vice presidente del consiglio dei Rabbi di New York, sostiene che le due carriere sono inconciliabili: ”Rispetto Foreman, ma deve ammettere la sua contraddizione”. Benjamin Blech, assistente di Talmud alla Yeshiva University, dice invece che avere un rabbino, campione del mondo di pugilato, può migliorare l’immagine degli ebrei. Ci sono stati molti grandi pugili ebrei, ma nessuno che abbia combattuto per Israele. Foreman lo sa, la boxe non è per tutti. ” una carriera che non consiglio, bisogna essere forti e saper incassare. Molta gente in Europa crede che il ring sia solo per i neri perché sono una categoria povera e oppressa, senza buone scelte di lavoro, costretta a usare il fisico e non la testa, anch’io prima pensavo così, ma la verità è che tutto dipende dalla voglia che hai e non dal colore della pelle. Quando le cose si mettono male, bisogna resistere, andare avanti, e continuare a provarci. Just a little bit harder. [...]” [...]» (Emanuela Audisio, ”la Repubblica” 18/12/2009).