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 2009  dicembre 17 Giovedì calendario

Appelfeld Aharon

• Zhadova (Romania) 16 febbraio 1932. Scrittore • «[...] Nato [...] nella Bukovina allora rumena e oggi ucraina, l’impatto con la brutalità della shoah arrivò per lui nel giugno 1941, quando si trovava nella casa di campagna dei nonni a Dracinezx, un piccolo villaggio sui Carpazi. ”Avevo nove anni. Quella mattina ero a letto con la tonsillite. Udii il trambusto, raffiche di mitra. Erano le bande di rumeni assieme ai soldati tedeschi, cercavano gli ebrei. Saltai dalla finestra e mi nascosi in un campo di grano. Mia madre venne uccisa subito. Non vidi mai il suo corpo, ma da lontano sentii uno sparo e un grido. Da allora non vidi più nessuno dei miei familiari. Solo mio padre, con lui fummo deportati in un campo di lavoro dopo una marcia forzata di due settimane. Ci separarono, attorno morivano tutti di fame e di tifo. Io scappai. Con mio padre ci ritrovammo in Israele solo nel 1959”, ricorda. Così, la fuga nei boschi. Per quattro anni nasconde la sua identità. Vive di bacche, beve dai ruscelli. Quando arriva il freddo dell’inverno trova riparo da una prostituta, poi sta con un gruppo di banditi. ”Dicevo che ero un orfano di guerra, mai rivelai di essere ebreo. E trovai sempre qualcuno disposto a darmi un tozzo di pane. Proprio la gente ai margini della società era più pronta ad accogliermi. Un criminale ha sempre bisogno dell’aiuto di un bambino”. Memoria e immaginazione, così Appelfeld ha lavorato per superare il trauma. ”Inizialmente scrivevo per ritrovare i miei genitori e quel mondo scomparso. Ben consapevole dei limiti immensi della memoria di un bambino. A dieci anni nei boschi, solo, vivi di illusioni. Ricordo qualche sensazione, immagini, nessun nome. Ero come un animaletto: infreddolito dalla notte, felice di trovare una fragola, un laghetto. La mia innocenza mi ha salvato dall’odio”. [...] Israele per lui arriva dopo. Ancora universitario negli anni Cinquanta, quando tutto il Paese era impegnato nel mito collettivo della costruzione dell’’uomo nuovo”, figlio dei contadini tra i campi della Galilea, lui del tutto fuori moda cercava le sue radici studiando l’yiddish, la lingua dei nonni appena morti nelle camere a gas. ”Molti anni fa ne parlai con Primo Levi, che mi aiutò a pubblicare i primi libri in Italia. Anche lui ebbe difficoltà a farsi ascoltare all’inizio. In Italia nessuno voleva pubblicare Se questo è un uomo. Quando proposi a un editore israeliano un libro sugli ebrei di Czernovitz mi fu risposto che sarebbe stato molto meglio ambientarlo in un kibbutz”, dice. La sua epopea comunque non diventa un inno al nazionalismo sionista, anche se la sua esistenza incarna il messaggio più puro dell’Israele rinato dalle ceneri dello sterminio. Più volte lo hanno criticato per l’assenza di empatia per i palestinesi. Ma lui glissa con poche parole: ”Certo che nei loro confronti sono stati commessi gravi errori politici. E non è impossibile che la memoria ossessiva e totalizzante dell’Olocausto abbia in qualche modo condizionato certe durezze israeliane verso gli arabi, è una teoria che va molto di moda tra i nuovi storici israeliani. Ma, attenzione, paragonare gli israeliani ai nazisti e i palestinesi alle loro vittime non è solo falso, ma anche folle e ignorante”» (’Corriere della Sera” 8/9/2007).