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 2009  dicembre 15 Martedì calendario

CAVOUR, UN PO’ DI RETORICA NON GUASTA


«Retorica» in Italia, è diventata una parolaccia, sinonimo di atteggiamento ampolloso e vuoto, nemico da rifuggire e combattere con ogni mezzo. E in effetti sul Risorgimento si sono sparse tante parole vane, nei decenni passati, che un po’ di potatura e di sguardo critico era necessario. Ma ormai siamo all’eccesso opposto, come testimoniano le polemiche degli ultimi tempi sulla povertà delle iniziative programmate per il 2011, centocinquantesimo anniversario dell’Unità, e più ancora – è il tema caldo degli ultimi giorni – di quelle per celebrare l’anno prossimo il bicentenario della nascita di Camillo Cavour. Si lamenta giustamente che poco o nulla ricorderà lo statista, forse con De Gasperi l’unico vero statista che l’Italia abbia avuto. Quasi una rimozione, e non del tutto involontaria.

 vero, il Risorgimento era diventato, a partire da fine Ottocento fino a toccare il culmine in età fascista, una sorta di pantheon di intoccabili, sottratto a ogni indagine storiografica critica e a ogni giudizio che non fosse di entusiastico encomio. Una degenerazione, questa sì «retorica» nella peggiore accezione del termine, contro la quale si è levata una salutare reazione da parte della storiografia e, più ampiamente, della società, soprattutto dal secondo dopoguerra. A quel punto il pendolo avrebbe dovuto fermarsi in un sano equilibrio, che coniugasse la necessaria correttezza storiografica con la doverosa ammirazione per i Padri della patria – espressione invece non a caso bandita dall’italico vocabolario, rea appunto di «retorica». Invece, soprattutto a partire dal Sessantotto, si è messo in moto un movimento «antiretorico» altrettanto fuori registro quanto quello contro il quale combatteva. E si è aperta la gara a criticare, minimizzare, mettere in dubbio ogni azione dei protagonisti del Risorgimento: da Garibaldi, ridotto al rango di sanguinario mercenario, a Mazzini, squalificato come ideologo amorale e anche un po’ vigliacco; da Vittorio Emanuele II, scaduto a becero e ignorante comprimario in balia degli eventi, ad appunto Cavour, che da lungimirante statista ammirato in tutta Europa è scaduto a truffaldino politicante, moralmente marcio e incattivito da meschinità e secondi fini.

Così il bicentenario della sua nascita, che dovrebbe essere salutare occasione di rievocazione della memoria collettiva e dei valori fondanti la nostra nazione, finisce per cadere in un panorama sterile e incattivito. Il pendolo ora aleggia nel pieno di un campo attraversato da quei rigurgiti autodenigratori nei quali noi italiani siamo maestri. Se un tempo i libri scolastici eccedevano nel fare del Risorgimento una collezione di atti eroici compiuti da altrettanti cavalieri senza macchia e senza paura, oggi altrettanto poco convincente appare la tendenza a relegare tutti gli attori sullo sfondo del palcoscenico. Per far spazio a che? A giudicare dalla grave carenza di virtù civiche e dalle imbarazzanti lacune nella memoria storica delle quali ripetutamente il nostro Paese fa sfoggio, si direbbe per far spazio a nulla. Senza arrivare a invocare «religioni civili» più o meno artificiose, ogni nazione ha bisogno di elementi intorno ai quali identificarsi per trovare il senso dell’agire insieme in vista del bene comune. Ideali magari anche un po’ «retorici», ma necessari agli Stati quanto i fondamenti economici e le architetture istituzionali. Perché altrimenti resta soltanto la nazionale di calcio.