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 2009  dicembre 16 Mercoledì calendario

CATANIA

«Io dico solo che questo clima d’odio deve finire perché potrebbe essere pericoloso… anche se la mia è tutta un’altra storia. Io ho agito per amor di patria perché Togliatti voleva portare l’Italia in braccio al Cominform. Il mio era attaccamento a quel tricolore che tanti politici oggi hanno appannato e per questo sono profondamente deluso». Molti lo hanno dimenticato ma lui è ancora vivo e abita sempre nello stesso appartamento al quinto piano di uno stabile nel centro di Catania. Dopo anni di silenzio ha accettato di parlare col Corriere (ascolta l’audio). Antonio Pallante è il giovane studente di giurisprudenza che nel luglio del ”48 in un mercatino del centro storico comprò una vecchia calibro 38 e viaggiò tutta la notte per arrivare a Roma. Grazie al tesserino di un giornale monarchico per due giorni riuscì a seguire da vicino tutti i movimenti del «Migliore» per poi entrare in azione la mattina del 14 luglio. Attese davanti a Montecitorio e quando Togliatti uscì assieme a Nilde Iotti sparò 4 colpi di pistola, tre dei quali andarono a segno.

Il Migliore venne ricoverato in condizioni gravissime e in molte città italiane scoppiarono incidenti e scontri di piazza. Risvegliatosi dall’intervento chirurgico che gli salvò la vita fu lo stesso Togliatti a lanciare il famoso appello: «calma, non perdete la testa». Il suo attentatore invece finì in carcere e per anni nel processo e non solo l’Italia si interrogò sul perché di quei quattro colpi di pistola e sui possibili mandanti. All’epoca Pallante aveva 25 anni, oggi ne ha 86. Giacca da camera, pantofole, si muove a fatica e sente poco, ma è ancora sufficientemente lucido. «La mente – sorride - la tengo allenata con le parole crociate. Poi leggo giornali e libri di storia e geografia». Si direbbe un tranquillo pensionato del quale nello stesso palazzo in cui abita non tutti sanno che è entrato nei libri di storia proprio per quell’attentato a Togliatti. Un gesto che in qualche modo torna a galla dopo l’aggressione a Berlusconi anche se lui è il primo a marcare le differenze. «Sono cose molto diverse e anche il momento storico è differente. Io mi sentivo un italiano puro, amavo il tricolore. Ho agito per un ideale. Oggi gli italiani hanno ben altri problemi: pensano a come riuscire a tirare avanti e non sono certo disponibili a fare gli esagiti o gli estremisti». Ma allo stesso tempo avverte: «i politici dovrebbero stare attenti e non esasperare troppo gli animi. Deve finire questo clima che potrebbe diventare pericoloso. Occorre calmare la situazione e consentire al governo di andare avanti nel proprio lavoro». Non va oltre. Non vuole esprime giudizi su Berlusconi né sul processo («gli atti sono lì, chi vuole può leggerli»). In primo grado venne condannato a 10 anni, ridotti in appello per poi beneficiare dell’amnistia e lasciare il carcere nel ”53. Da allora ha parlato pochissime volte ma ha sempre tenuto a precisare: «non ero un killer a pagamento come qualcuno ha cercato di far credere. Credevo in certi valori e non ho agito contro un uomo ma contro un ideale».

Alfio Sciacca