Katia Ricciarelli, Chi 16/12/09 (prima parte); Chi 23/12/09 (seconda parte), 16 dicembre 2009
Katia Ricciarelli: I miei 40 anni di carriera (prima parte) - Non amo le celebrazioni. Se fosse dipeso da me, non avrei ricordato che quest’anno, 2009, ricorrono quarant’anni dal mio debutto in teatro
Katia Ricciarelli: I miei 40 anni di carriera (prima parte) - Non amo le celebrazioni. Se fosse dipeso da me, non avrei ricordato che quest’anno, 2009, ricorrono quarant’anni dal mio debutto in teatro. Ma amici, ammiratori, direttori di teatri, i miei allievi hanno voluto celebrare. E, alla fine, mi ha fatto piacere. sempre molto bello vedere che la gente ti vuole bene, ti stima e apprezza il tuo lavoro. Se mi guardo indietro e tento un bilancio, mi stupisco. Sono una che non ha mai tenuto conto di niente. Quindi, non so esattamente quante recite ho fatto, quanti concerti, quante opere ho interpretato, in quanti teatri ho cantato. L’unico dato preciso viene dalle incisioni discografiche, che sono moltissime. Comunque, in questi 40 anni di professione ho svolto un’attività immensa. Ho sempre lavorato moltissimo. Migliaia di recite. E significa migliaia di emozioni fortissime, con gioia, felicità, soddisfazioni, successi, trionfi, acclamazioni, ma, a volte, anche delusioni, tristezze, insuccessi, sconfitte, lacrime, dolori che ti spaccano il cuore. Di tutto questo è piena la mia vita. Se potessi fotografare la mia anima, la troverei sì luminosa, sfavillante, ma cosparsa di ferite, cicatrici, segni di un’esistenza difficile e combattuta. Il mio debutto in teatro risale al 2 ottobre 1969, al Teatro Sociale di Mantova. Ero protagonista della Bohème di Puccini. Avevo 23 anni. Ricordo tutto di quella sera. Debuttavo perché avevo vinto un concorso molto importante, l’Aslico (Associazione lirica concertistica italiana) di Milano. Lo avevo vinto in modo strano. Avevo trionfato nelle selezioni e nelle semifinali. Ero sicura della vittoria. Per la finale scelsi l’Ave Maria dell’Otello di Verdi, un brano adattissimo alle mie dote vocali, che mi permettono di emettere note limpide ed eseguire ”filati” pianissimi, che sembravano venire dal cielo. Ma durante l’esibizione, arrivata a quella magica nota finale, rimasi senza voce. Fiasco. Avrei voluto piangere, sprofondarmi, sparire, scappare. Ma mi venne in aiuto il mio carattere puntiglioso. Rimasi lì, ferma, impietrita per qualche attimo, poi chiesi alla giuria di poter ripetere la romanza. Mi fu concesso e lo feci con una tale maestria, una tale perfezione, da commuovere tutti e vinsi. A Mantova, quella sera del 2 ottobre, andò tutto benissimo. Riportai un grande successo personale. Ebbi le mie prime critiche sui giornali. Qualcuno scrisse che ero un fenomeno. L’anno successivo partecipai a un altro concorso molto importante, quello delle ”voci verdiane” di Busseto, e vinsi. Nel 1971 si svolse il primo concorso televisivo per voci liriche. Ricorrevano 70 anni dalla morte di Verdi e il concorso venne riservato alle ”voci verdiane”. Mi iscrissi e vinsi anche quello. Le varie fasi del concorso furono registrate e venivano trasmesse la domenica sera in televisione. Era come se la gara si svolgesse davanti a una platea immensa. E subito, fin dalla prima puntata, divenni la beniamina del pubblico televisivo. Accompagnata dall’Orchestra della Rai, diretta da Armando La Rosa Parodi, cantai l’aria di Medora, dal Corsaro di Verdi. Un brano perfetto per le mie doti vocali. Al termine della mia esibizione, il pubblico che gremiva l’auditorium mi tributò un applauso interminabile. La presentatrice, Alba Cercato, tentava di riprendere la trasmissione, ma non ci riusciva. Dieci minuti di ovazione e, anche se il regolamento non lo permetteva, fui costretta a tornare per due volte al proscenio a ringraziare. Al concorso ero stata accompagnata dalla mia maestra, Iris Adami Corradetti, e da mia madre. In albergo, dopo la vittoria, festeggiammo. La mia maestra ripeteva a tutti: «Io l’ho creata». E mia madre, di rimando: «Sì, ma io l’ho fatta nascere». Quelle affettuose scaramuccie mi facevano venire le lacrime agli occhi. Mi davano una gioia interiore grandissima. Avevo una profonda riconoscenza per la mia insegnante, che mi aveva aiutato molto. E amavo mia madre con un amore sconfinato. Mia madre è stata la persona che ha dominato la mia vita. Non con la sua presenza, con i suoi consigli, con le sue raccomandazioni, ma con il suo silenzio. stata una donna che ha sofferto moltissimo, ma sempre in silenzio. Senza lamentarsi, senza ribellarsi. Aveva un cuore immenso. Si è trovata in gravi difficoltà, ha dovuto affrontare enormi problemi e lo ha fatto da sola, con coraggio e dignità eccezionali. Quella sera, a letto, non riuscivo a prendere sonno. Il pensiero correva caparbiamente al passato. Rivedevo la mia infanzia, l’adolescenza, la prima giovinezza, i sogni, le gioie, e sullo sfondo sempre mia madre. Silenziosa e sempre impegnata nel lavoro per mandare avanti la famiglia. Fin da allora capii che quel ”sacrificarsi estremo” era frutto di un amore infinito e fu quell’esempio, quell’amore a gettare nel mio cuore una forza potente. Giurai a me stessa che sarei diventata ricca, famosa, per poter ripagare mia madre di tanti sacrifici. Noi allora vivevamo a Rovigo. Mia madre, io e le mie due sorelle, Anna e Luisa. Vivevamo in un appartamentino costituito da una sola stanza. Io ero la più piccola. Quando iniziai ad andare a scuola, mi accorsi che portavo il cognome di mia madre: Ricciarelli. Cominciai a fare domande e un giorno la mamma mi raccontò la sua storia. Era di Livorno. Rimase orfana alla nascita. A 12 anni perse anche il padre. Finì in un orfanotrofio. Si sposò giovanissima. Ebbe quattro figli, due morirono in fasce. Allo scoppio della guerra, il marito partì per la Russia, da dove non tornò più e fu dichiarato disperso. Per sopravvivere, mia madre lasciò Livorno e andò in Germania a lavorare nei campi di patate. Era bellissima. Conobbe un uomo. Se ne innamorò. Lui promise di sposarla. Rimase incinta. Ma, tornando in Italia, scoprì che quell’uomo l’aveva ingannata: era già sposato. Avere un figlio illegittimo, allora, era un dramma. La gente ti segnava a dito. Non ti davano da lavorare. Non avevi considerazione. Mia madre visse quel terribile dramma. Non potendo avere un lavoro fisso, svolgeva i compiti più umili, accettava tutto per un tozzo di pane. E quando seppi la sua storia, il mio amore per lei divenne immenso. Le dicevo: «Quando sarò grande, diventerò famosa, ti comprerò una sedia d’oro e tu potrai riposare tutto il giorno». Per lei ho affrontato i sacrifici più duri, ho vinto e ho mantenuto la mia promessa. Le sono sempre stata vicina e per lei comperai la casa di Spoleto, un magnifico castello che tutti mi invidiavano. La mamma trascorse gli ultimi anni della sua vita in quel castello, proprio come una regina. Dopo la sua scomparsa, anche quel castello non abbe più importanza per me. La mia prima esibizione in pubblico la feci quando avevo 7 anni. Cantai in uno spettacolo organizzato dalle suore di Rovigo, alla presenza del vescovo, ed ebbi un tale successo che un impresario pensò di scritturarmi. Mi portava nelle balere, esibendomi come un fenomeno da baraccone. Ma dovevo essere molto brava, perché mi pagava 10 mila lire a spettacolo, e quei soldi erano preziosi per la mia famiglia. Crescendo, incominciai a pensare al mio futuro. Visto che avevo una bella voce e che con la voce guadagnavo dei soldi, decisi di fare la cantante. Dopo le scuole elementari feci le medie e poi mi iscrissi al liceo musicale di Rovigo. Miravo in alto. Ero determinata a diventare una cantante famosa. E volevo studiare con la migliore insegnante. Tutti parlavano di Iris Adami Corradetti, ex celebre cantante, che insegnava contemporaneamente a Padova, a Venezia e anche al liceo musicale di Rovigo. Andai da lei e le dissi che volevo studiare con lei. Mi sorrise, sedette al pianoforte e mi fece cantare qualche cosa. «Quanti anni hai?», chiese. «Tredici», risposi. «Sei molto brava», disse, «ma sei troppo giovane. Se vuoi diventare una cantante, non devi sforzare la voce ora che le tue corde vocali sono in formazione. Torna da me quando avrai compiuto 18 anni». La ascoltai. Smisi di andare in giro a cantare. Per continuare a guadagnare dei soldi, cercai un lavoro. Feci la barista. Poi l’operaia in una fabbrica di mangiadischi e infine diventai commessa ai grandi magazzini Upim. A 18 anni mi licenziai e andai a Padova in cerca della Corradetti. Si ricordava di me. Insegnava solo al Conservatorio di Venezia. Mi iscrissi e divenne la mia insegnante. Il viaggio giornaliero Rovigo-Venezia e ritorno era un inferno. Treni lenti, coincidenze precarie. Mi alzavo prestissimo. La sera tornavo alle dieci e anche più tardi. Restavo in piedi altre due ore a studiare. Dormivo pochissimo. A mezzogiorno mangiavo a Venezia. Non avevo soldi per andare in trattoria e il mio pranzo era costituito da un panino e da acqua di fontanella. Il mio fisico ne soffrì molto. Diventai magra e pallida. Mia madre era preoccupata. Voleva che smettessi la scuola ma non mollai. Riuscii a terminare I’anno e alla ripresa delle lezioni decisi di fermarmi a Venezia. Trovai una stanza che dividevo con un’altra ragazza, povera come me. Per sostenere Ie spese, risparmiavamo su tutto. compreso il cibo. Furono gli anni più tristi della mia vita. Non per i sacrifici, ma per la solitudine. Venezia era un ambiente chiuso. Non avevamo amicizie. Eravamo sempre senza soldi e quindi non potevamo uscire da sole. Io avevo 19 anni. Sentivo un grande desiderio di compagnia, volevo andare a teatro, al cinema, passeggiare di notte. Invece niente. Avevo il cuore che mi scoppiava. Per rabbia studiavo ore e ore. Al Conservatorio ero la migliore, ma ero anche una ragazza sola e disperata. Tenni duro e mi diplomai con il massimo dei voti. Come ho già detto, la mia carriera era iniziata bene. Il concorso televisivo del l97l mi diede una spinta enorme e mi rese popolare. La gente mi riconosceva per strada. Ricevetti innumerevoli offerte di contratti. Da allora non mi sono più fermata. Ho cantato nei teatri di tutto il mondo, scelta dai direttori più celebri: von Karajan, Kleiber, Abbado, Levine, Bartoletti, Maazel, Giulini, Prètre, Cavazzeni. Ho cantato con i tenori più applauditi, da Mario Del Monaco a Placido Domingo, a Luciano Pavarotti, a José Carreras. Insomma, posso dire di avere avuto una carriera davvero favolosa. Ma non priva di dolori. E uno, in particolare, mi pesa ancora nel cuore: i rapporti con la Scala di Milano, che furono tiepidi, a volte burrascosi, mai idilliaci. Il sogno di ogni cantante lirico italiano (e anche straniero) è quello di cantare alla Scala, il ”tempio” mondiale della lirica. E a me quella fortuna venne offerta fin dal 197l, subito dopo il trionfo televisivo. Firmai due contratti: la Messa di requiem di Verdi, diretta da Abbado, per il 1972 e Suor Angelica di Puccini per il 1973. La Messa filò liscia, Suor Angelica fu un incubo. L’opera era in programma il 2 aprile 1973. Nei giorni che precedettero l’esecuzione ci fu una grande campagna pubblicitaria a mio favore. Forse esagerata. I nemici organizzarono la vendetta. Fin dall’inizio dello spettacolo avvertii che il pubblico era diviso in due fazioni: i miei ammiratori e i miei nemici. Ogni applauso era turbato da fischi ingiustificati. Dopo la mia romanza Senza mamma, dove eseguii un meraviglioso ”la” filato, si sentì una voce gridare forte: «Sei divina, bravissima». E scoppiò il finimondo. La Scala divenne un’arena infuocata. Le due fazioni del pubblico si insultavano ferocemente. Volarono pugni, calci, ci furono feriti. Non potevo credere a ciò che vedevo e sentivo. Ero indignata, perché quell’esibizione alla Scala, tanto sognata e attesa, si stava trasformando in un fiasco. Ma sapevo di avere la coscienza a posto. Sapevo di cantare bene. Per questo non ho mollato. Mi sono piantata in mezzo al palcoscenico, ho sfidato il pubblico e ho portato a termine l’opera. Ma le conseguenze furono dolorose. Quella vicenda rovinò, in pratica, gran parte della mia carriera. Tra me e la Scala si creò una frattura, che non venne mai sanata. Tornai tre anni dopo, nel gennaio 1976, nel Simone Boccanegra, con Abbado direttore, ma l’accoglienza fu tiepida. Poi di nuovo nel 1985 con Il viaggio a Reims di Rossini, ancora con Abbado. Uno spettacolo bellissimo, che ebbe successo, ma era un’opera allestita altrove e quindi già rodata. L’ultimo tentativo di sanare quella frattura venne fatto nel 1989 con un magnifico allestimento di Luisa Miller. Io in quel periodo ero popolarissima. Avevo sposato Pippo Baudo, che era il personaggio televisivo di maggior prestigio. Ovunque cantassi, doveva intervenire la polizia per contenere il pubblico. Ed era uno scandalo che non cantassi mai alla Scala. Per cui con quell’opera doveva iniziare una serie di collaborazioni, dimenticando definitivamente il passato. Quell’opera mi stava a pennello. L’avevo già interpretata e sempre con grandissimo successo. L’avevo anche incisa in disco per la DG, con Placido Domingo, Renato Bruson e la direzione di Lorin Maazel. I dirigenti scaligeri prepararono un cast meraviglioso. Doveva segnare un trionfo e risultò il disastro più grande che si potesse immaginare. Fui contestata dall’inizio alla fine. Urla, invettive, lazzi, fischi, una guerra. Ma anche in quell’occasione non ho mollato. Ho continuato a cantare, dominando ogni emozione. Con l’aria Tu puniscimi, o Signor riuscii a strappare applausi da ogni parte della sala, perfino dal loggione, creando un’atmosfera magica. Sembrava fossi riuscita a raddrizzare la situazione, ma poco dopo tornarono le contestazioni. Cantare in quelle condizioni era impossibile. Mi sentivo morire. Capii che avevo sbagliato a voler tornare in quel teatro e chiusi per sempre con la Scala. ______________________________________ (seconda parte) - Quarant’anni di carriera, ma anche quarant’anni di vita. Una vita spericolata e alla grande. La mia attività lavorativa è sempre stata piena: opere, concerti, incisioni discografiche, viaggi, aerei, taxi, treni, alberghi, ristoranti, incontri con personalità, con direttori di teatri. Io, poi, sono ”onnivora” del lavoro, incontentabile, curiosa, mi lascio tentare dalle novità, sedurre dai rischi, dalle imprese che sembrano impossibili. Così, oltre a fare la cantante, ho fatto il direttore artistico per diverse stagioni al Politeama di Lecce e, grazie al successo raggiunto, sono stata chiamata a dirigere anche il grande teatro all’aperto di Macerata. Ho fondato un’Accademia di canto lirico, che porta il mio nome, ho fatto l’attrice alla tv e anche al cinema, con Pupi Avati, vincendo un Nastro d’argento. Non ho mai rinunciato quando mi hanno chiamato in televisione. Ho voluto perfino cimentarmi in un reality, La Fattoria, edizione 2006, nel deserto del Marocco. Io, abituata ai più lussuosi alberghi del mondo, sono vissuta per settimane con un misero materasso al posto del letto e un bagno in comune con tutta la compagnia. Un’esistenza, la mia, intensa da un punto di vista artistico, ma anche un po’ strana. E molti mi chiedono: in mezzo a questo turbinio di attività, c’è stato posto per i sentimenti? Per l’amore, per la passione? Ho sempre faticato a parlare dei miei sentimenti. Nelle interviste ho detto molte bugie, quando mi facevano domande su questo argomento. Sono gelosa di ciò che avviene nel mio cuore. Ma con l’età anche questo atteggiamento di difesa si è allentato. L’amore è il più grande dono che Dio abbia fatto agli esseri umani. il sentimento che ti fa diventare simile a Dio. Ma proprio perché è così sublime, diventa spesso irraggiungibile. O, se lo raggiungi, è facile che poi lo rovini. Ricordo la prima volta che mi sono innamorata. Avevo l3 anni. Lavoravo in una fabbrica di mangiadischi. Mi innamorai del figlio del padrone. E lui di me. Quando lo vedevo, il cuore galoppava e le gambe diventavano molli. Un amore impossibile: lui era ricco, io poverissima. Mesi bellissimi, con furtivi incontri, ma poi la realtà ebbe il sopravvento e rimasi sola con il mio destino. Durante il periodo dello studio in Conservatorio avevo messo un lucchetto al mio cuore. Ma, con I’arrivo del successo, diventai di nuovo vulnerabile. Nel 1972, nel corso di una Bohème a Parma, fui stregata dal mio partner, che era un giovane tenore, all’inizio di carriera come me. Si chiamava José Carreras. Aveva la mia età. Una voce meravigliosa. un temperamento caldo, appassionato, era bello come un dio. Riprovai quella indicibile ebbrezza di quando avevo 13 anni. Un amore e una passione indescrivibili. Ma ancora una volta, mi sono trovata di fronte a difficoltà insormontabili. Lui era sposato, amava sua moglie, aveva un figlio che adorava. Avevo la certezza che quel mio sentimento divino non avrebbe mai potuto realizzarsi nella pienezza. Con il cuore straziato, mi imposi di lasciare, di dimenticare. E subito, come per incanto, conobbi un’altra persona meravigliosa. Erano gli anni della mia crescita artistica. Tutti mi adoravano. E anche quella persona, che era poi una potenza nel campo del teatro. Si chiamava Paolo Grassi. Era da poco sovrintendente della Scala e io, in quel periodo, avevo delle trattative in corso con il teatro milanese. Paolo Grassi aveva una signorilità, una sensibilità che inebriavano. Con lui si parlava di arte, di canto, di tcatro, della mia carriera. Mi faceva sognare. stato l’uomo che, nel corso della mia vita, mi ha affascinato più di ogni altro. A poco a poco ci innamorammo. Segretamente, perché lui era famoso. Io avevo 26 anni e lui il doppio dei miei. Ma l’età non contava. Mi sentivo attratta da lui. E lui era perso di me. I pochi amici che conoscevano la storia erano entusiasti. Avevano fatto di tutto per allontanarmi da Carreras e invece favorivano Grassi. Accanto a lui, dicevano, sarei diventata la regina della Scala e di tutti i teatri. Insomma, oltre alla mia infinita ammirazione per quell’uomo, c’erano i consigli che mi spingevano al matrimonio. Decidemmo proprio di sposarci. Grassi fece stampare anche le partecipazioni, con la data delle nozze, che inviò a molti dei suoi amici. Era cosa fatta. Ma all’ultimo saltò tutto. Tornai a cantare con Carreras e capii che lui mi aveva stregato. Per Grassi avevo un’ammirazione infinita, per Carreras una passione infinita. Rinunciai a quello che per i miei consiglieri era un regno e accettai l’incertezza di un avvenire con José, sperando nell’impossibile. Tredici anni di attesa, con lotte, liti, pianti, ma anche tanto indimenticabile amore. Amore giovane, appassionato, libero, a volte disperato, ma amore vero, come più vero non si può. E poi anche quella storia è finita. E ne è cominciata un’altra. Quella con Pippo Baudo. Su questa mia vicenda è stato scritto tutto e più di tutto. Posso aggiungere solo che ho amato Pippo. L’ho amato, com’è nel mio carattere, fedelmente e senza calcoli. Ma le cose perfette non esistono nella vita. Vicende strane e imponderabili hanno corroso anche quel sentimento. Ma, come sempre, io sono pronta a ricominciare. (segue...)