Carlo Lottieri, il Giornale 16/12/2009, 16 dicembre 2009
LINCOLN CENTRALISTA: FU IL CAVOUR DEGLI STATI UNITI
Da tempo, anche in Italia, si discute di federalismo. Ma una seria riflessione sul tema è impossibile se non ci si confronta con quanto è successo in America due secoli fa, quando - dopo la guerra per l’indipendenza dall’Inghilterra- le ex-colonie sono divenute il teatro del più ambizioso esperimento istituzionale in tal senso.
Per questo è importante segnalare che chi voglia accostare l’articolato intreccio tra idee e interessi che ha dominato gli Stati Uniti dalla loro nascita fino alla tragedia della Guerra civile dispone oggi di uno strumento fondamentale. Lo storico delle idee politiche Luigi Marco Bassani ha infatti pubblicato un volume (Dalla Rivoluzione alla Guerra civile. Federalismo e Stato moderno in America, 1776-1865, edito da Rubbettino) che dà uno sguardo non convenzionale all’intera vicenda nordamericana.
Bassani pone al centro la tensione tra la logica pluralista del federalismo (basato sull’autonomia e sull’autogoverno delle ex-colonie) e i dogmi dello Stato moderno, quale si è venuto a elaborare entro una riflessione teorica che conduce da Bodin a Hobbes, da Rousseau a Hegel. E così il volume, aperto da un’ampia analisi intitolata «Stato o federazione», ruota attorno ad alcune tesi forti. In primo luogo, Bassani evidenzia come federalismo e statualità non siano conciliabili: con la conseguenza che o si afferma il primo (come è avvenuto nella fase iniziale della storia istituzionale statunitense), oppure finisce per prevalere il centralismo statuale, e a quel punto le entità federate vengono sempre ridotte al livello di unità amministrative o poco più.
Quando esamina il pensiero dei cosiddetti «antifederalisti», che in realtà erano fautori di un federalismo coerente, oppure anche quando presenta le idee di Thomas Jefferson, l’autore enfatizza che l’America nasce liberale anche perché è fin dall’inizio caratterizzata da un sacro rispetto per la libertà dei singoli Stati. In questa fase, la stessa nozione di «sovranità» è utilizzata in rapporto alla Virginia o al Maryland, quale concetto posto a difesa dei loro diritti, e non già per autorizzare ogni forma di intervento del potere centrale.
Le cose cambiano un po’ alla volta: dapprima sul piano delle idee e poi quale portato di avvenimenti che modificano la natura dell’ordine politico e sociale statunitense. In questo senso, è significativo come il testo si chiuda con un’analisi molto dettagliata del ruolo ricoperto da Lincoln nelle vicende di metà Ottocento e, in particolare, nella Guerra civile. Anche se spesso si sente ancora oggi ripetere che il presidente americano ha invaso gli Stati del Sud perché intendeva abolire la schiavitù, in realtà egli utilizzò la condizione della popolazione di pelle nera quale pretesto per scongiurare il distacco di alcuni Stati. Nella sua essenza, quella di Lincoln non fu una battaglia antischiavista, ma semmai nazionalista.
Il volume ricostruisce molto bene l’origine di questa cultura statolatrica, sostanzialmente estranea al dibattito politico che aveva visto protagonisti i Padri fondatori. Un ruolo importante, in questa trasformazione della cultura e della società americane, ebbero il giurista tedesco Francis Lieber (emigrato negli Usa nel 1827) e quegli altri intellettuali di cultura germanica che imbevuti di idealismo, patriottismo e romanticismo - contribuirono non poco a «europeizzare» il lessico politico americano. in larga misura a seguito di questa emigrazione che il dibattito muta in profondità, al punto che all’inizio degli anni Sessanta il presidente Lincoln si trova a giocare - oltre Atlantico - un ruolo non troppo dissimile da quello che il conte Cavour interpreta in Italia e il cancelliere Bismarck in Germania.
Per questo motivo, la sconfitta dell’esercito guidato dal generale Lee non è soltanto la disfatta di un Sud agrario e arretrato, incapace di vedere l’illegittimità della schiavitù. anche la disfatta di una prospettiva politica che avrebbe voluto salvare, al tempo stesso, la più ampia libertà delle realtà federate e i benefici derivanti dalla cooperazione: assenza di barriere doganali e difesa comune, in primo luogo. la resa della cultura federalista di fronte alle logiche dello Stato moderno, e non è un caso se da lì in poi gli Stati Uniti adotteranno una politica estera spesso non meno spregiudicata di quella sposata dagli Stati europei.