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 2009  dicembre 15 Martedì calendario

SHERLOCK HOLMES LA STORIA SI RIPETE MA SI RINNOVA (DUE ARTICOLI)


Londra. C’è una moltitudine a scommettere che sarà un blockbuster il nuovo Sherlock Holmes di Guy Ritchie, regista britannico purosangue, classe 1968, e identità divisa tra se stesso e il suo avatar, quello del marito divorziato della celeberrima cantante Madonna. L’ultima faticaccia della Warner ha fatto irruzione l’altroieri in anteprima mondiale globalizzata al centro di Londra. Proprio nel bel mezzo del più ruggente degli shopping natalizi, in una delle sale istoriate della London Free Mason’s Hall, la Gran Loggia Massonica di Covent Garden, che ha visto nei mesi scorsi gruppi di interpreti agitarsi nell’aria recitando alcune scene del film, il mito ha assunto la forma umana di un paio di attori in carne ed ossa, più il regista Ritchie. Attorno telecamere e cervelli provenienti da ogniddove. Nessuno escluso, nemmeno Singapore. Anche perché le ossa (e la carne) erano quelle di Robert Downey Junior e di Jude Law, rispettivamente Sherlock Holmes e James Watson, i centenari prodotti della mente di Arthur Conan Doyle. Anch’essi con tratti cinematografico sacrali ma entrambi leggermente irriverenti e reduci da una serie di appuntamenti per fortuna ben conclusisi con la giustizia americana il primo, divo dégage par excellence il secondo, qui incastrati in un chiasmo energetico degno del migliore Otello. In quello che è poi, in fondo, il classico letterario di tutti ragazzini d’Oltremanica. Una storia senza tempo quella del vittoriano eroe positivista, che sugli schermi lotterà contro il Male in una battaglia senza esclusione di colpi, e dove il principio negativo ricorrerà anche alle «arti oscure e potenti»; non a caso ci troviamo sul Tamigi, da tempo immemorabile patria della magia e di Harry Potter. Il regista Ritchie ammette un certo interesse per la Cabala, in condivisione con la sua ex moglie, e il percorso non è privo di rilievo, nemmeno per il film. Iconografia britannica docet dunque, per una vicenda, racconta il regista, «essenzialmente inglese ma con un allure di respiro ampio e mondiale» e dove Sherlock ha un tratto «viscerale ma allo stesso modo dinamico, fresco»; e che lo stesso Downey Jr. riconosce come propria. «Mi sento molto vicino a Sherlock », sintetizza l’attore, spiegando di avere «un carattere molto simile a quello di Holmes». Un Holmes intramontabile sì, che non vuole assolutamente ripetere se stesso ma offrirsi in una rilettura dinamica e «attualizzata», racconta ancora il regista Ritchie (fan di Sherlock sin da bambino), ma che «rispetta l’integrità di Conan Doyle, con fedeltà ai dialoghi e allo stile». Un tuffo nell’infanzia anche per Jude Law, per lui la storia «viene davvero dal passato». E se ogni cittadino di Sua Maestà Elisabetta II è potenzialmente un Dottor Watson in pectore, per prepararsi alla parte Jude «si è ricordato di quando era piccolo», confessa candidamente alla folla (tra cui molte signore estasiate). Anche considerando che uno dei primi passi tv del bel Law, l’attore inglese più amato dai tabloid, è stata proprio una serie sull’investigatore, nella quale si agitava in veste di giovane e ancora sconosciuta comparsa. Probabilmente farà esplodere i botteghini, ma di sicuro sarà ricordato come lo Sherlock Holmes dei belli. Bello l’investigatore, bello Watson e per terminare bello anche il principio oscuro del male, Lord Blackwood, interpretato da un Mark Strong che non ha assolutamente nulla del bianco volto di pietra di Darth Vader. Viene da chiedersi se la favola di Natale, per il cui script originale gli sceneggiatori hanno anche fatto ricorso ad un aiuto extra, quello dei Baker Street Irregulars, gruppo di ricerca specializzato in Sherlock Holmes, non abbia voluto dare una gran bella soddisfazione anche all’occhio, considerati i volti presenti. Ma Holmes ha in ogni caso una sua particolare eloquenza e, puntualizza di nuovo Ritchie, «anche Watson è attraente, poiché si voleva creare un’idea di eguaglianza nei due personaggi». Anche considerato, riprende il regista, che «Sherlock è un personaggio dalle molteplici peculiarità. Esperto di arti marziali, affamato di sapere ma anche terribilmente depresso». Insomma, era necessario un Watson solare per controbilanciare l’archetipica austerità dell’investigatore, «dotato di una smodata curiosità e di una carica energetica quasi sovraumana», conclude Robert Downey Jr, che con questo Holmes racconta con soddisfazione di «trovarsi in un punto del suo percorso di attore che è proprio lì, dove sperava di arrivare». Prodigio di una storia che fa proseliti da più di 100 anni. Da Natale, per Holmes, the game is afoot.

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DALLA COCAINA AL SOLDATO WATSON ANALISI DI UN MITO «ELEMENTARE»-
«Signor Holmes, domani a mezzogiorno il mondo che conosce svanirà», l’informa il cattivo di turno, quel Lord Blackwood massone e stregone pronto a fare una carneficina con una potente arma chimica. «Allora non c’è tempo da perdere», battuteggia il mitico detective. Che però ha subito un completo restyling estetico-etico: dimenticare il cappelluccio con la doppia visiera, il cappotto in tono, la ricurva pipa Calabash (quella Tarantino l’ha messa in bocca al luciferino nazista di Bastardi senza gloria), l’estenuata malinconia lenita dagli esercizi al violino o dalla cocaina in soluzione sette per cento, le frasi di rito come «Elementare, Watson», la misoginia ben temperata, eccetera. Il nuovo Holmes si gode le femmine, fuma il sigaro, gira vestito come un’icona pop della swingin’ London: occhialini tondi blu, cappello sulle 23 da bohémien, pastrano di velluto a coste…
Il problema, col nuovo Sherlock Holmes, è che a prima vista, sui manifesti, non capisci chi è Holmes: se Robert Downey Jr. o Jude Law. Vabbè, è Downey, ma poteva essere benissimo il contrario. Perché anche Law, nel rifondare la figura del fedele biografo-assistente Watson, altera totalmente l’immagine classica: non più la spalla grassottela e sedentaria, pure lenta nella sublime arte della deduzione, bensì un ex combattente reduce dalle campagne in India e in Afghanistan, uno tosto, che spara e picchia. Esce il 25 dicembre, giorno di Natale, il film di Guy Ritchie. La Warner Bros punta molto sul revival dell’investigatore di Baker Street: in gergo hollywoodiano - lo spiega bene Luca Barbabé su Ciak - si chiama ”reboot”, che sta per rilancio e aggiornamento di un personaggio già ampiamente sfruttato al cinema. successo per James Bond, Batman, Superman, la saga di Star Trek, e via rivitalizzando. Di solito si destruttura il personaggio, lo si umanizza sul versante psicologico (non sempre) o irrobustisce sul piano muscolare per piazzarlo in avventure sempre più mirabolanti o apocalittiche, situazioni adrenaliniche, contesti che strizzano l’occhio al presente, ma dentro una ricostruzione iperrealistica del passato. Nel caso di Sherlock Holmes, l’East End londinese del tardo Ottocento, rugginoso e putrido, ancora dickensiano, tutt’altro che un posto da damerini. Nel film Watson si lamenta del disordine, della scarsa igiene, della depravazione di Holmes, anche del suo straziante violino suonato alle tre di notte. E intanto, uscito davvero dal tunnel della droga, Robert Downey Jr. sfodera una ”tartaruga” pazzesca mentre sfida a baritsu, una specie di ju-jitsu, i suoi avversari per tenersi in allenamento. Davvero, più che i compassati Holmes & Watson, sembrano i vitalistici Butch Cassidy & Sundance Kid del vecchio western di George Roy Hill o gli sbirri complementari della serie Arma letale. Due dandy che pestano forte. Piacerà l’operazione? Probabilmente sì. Sherlock Holmes viene rovesciato come un calzino, sfruttando la fama universale del detective vittoriano escogitato da Conan-Doyle ma cucendogli addosso una torva trama da fumetto, tra razionale e irrazionale, positivismo e magia. I nostalgici, appellandosi alla cine- Bibbia di David Stuart Davies Starring Sherlock Holmes, grideranno allo scandalo, rimpiangendo il tono rilassato dei 14 film con Basil Rathbone e Nigel Bruce, o la decorosa ritualità dei 41 episodi della serie tv con Jeremy Brett e David Burke realizzati tra il 1984 e il 1995. E tuttavia non si contano le variazioni, a partire dal sofisticato Sherlock Holmes: soluzione sette per cento di Herbert Ross, 1976, nel quale il detective, cocainomane incallito e affetto da complesso di persecuzione, viene trascinato dall’amico Watson a Vienna, per essere affidato alle cure psicoanalitiche del giovane Sigmund Freud. I lettori meno giovani del Riformista ricorderanno invece la breve, pure dignitosa, serie italiana andata in onda sul primo canale Rai, era il 1968, con Nando Gazzolo e Gianni Bonagura nei panni della celebre coppia. Mentre i cinefili di più esigenti faranno spallucce a Guy Ritchie rimpiangendo forse il più bel film sul tema, quel crepuscolare e divagante La vita privata di Sherlock Holmes diretto nel 1970 da Billy Wilder e scorciato di circa un’ora per ordine della United Artists. «Sono rattristato per tutto quello che abbiamo dovuto togliere », si lamentò il regista di A qualcuno piace caldo. Si può capirlo. Eliminati il prologo a Costantinopoli, numerosi flashback, il giovane Sherlock studente a Oxford invaghito di una ragazza salvo poi scoprire che è una prostituta, le allusioni al latente legame omosessuale tra i due. Robert Stephens e Colin Blakely erano perfetti. Dicono fosse bellissima la versione lunga. Non la vedremo mai.