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 2009  dicembre 16 Mercoledì calendario

«Io lo sfascio». Sedici anni di dipietrate-  da quasi sedici anni che Antonio Di Pietro cerca di «sfasciare» Silvio Berlusconi, ma l’ambiguità del primo, dapprima, rischiò seriamente di imbrigliare il secondo

«Io lo sfascio». Sedici anni di dipietrate-  da quasi sedici anni che Antonio Di Pietro cerca di «sfasciare» Silvio Berlusconi, ma l’ambiguità del primo, dapprima, rischiò seriamente di imbrigliare il secondo. L’allora pubblico ministero, per cominciare, votò Forza Italia. L’ha raccontato lui. Era il 27 marzo 1994 e tra lui e Silvio Berlusconi non c’erano ufficialmente attriti, anzi: le inchieste che avevano sfiorato la Fininvest nel 1992 e in parte nel 1993 erano state ritenute trascurabili da tutta la stampa. Poi, dopo la discesa in campo, la marcia di avvicinamento di Di Pietro verso Berlusconi accelerò in febbraio, quando decise di arrestargli il fratello. Evidentemente ci teneva: l’inchiesta, infatti, era stata aperta dal giovane pmfriulano Raffaele Tito, ma Di Pietro si era inserito non appena si era prospettato quel nome interessante. Il televideo Rai il 14 febbraio annunciò l’arrestodi Paolo Berlusconi due ore prima del fatto e la conduttrice del Tg2 confuse i nomi e disse «Silvio». L’arresto di Paolo venne preso come un segnale, ma Silvio non fece sparate, anzi:«Di Pietro? Sì che mi piacerebbe averlo nella mia squadra» disse la sera del 22 febbraio al ”Maurizio Costanzo Show”. Poi la morsa della magistratura prenderà a stringersi e dopo un primo tentativo di ingabbiare Marcello Dell’Utri - 9 marzo- ecco il primo Berlusconi antigiudici della sua carriera politica: «La sinistra utilizza i suoi uomini di riferimento nella magistratura », disse riferito a Gherardo Colombo. Non certo a Di Pietro, che si teneva alla larga:a condurre l’inchiesta infatti era una formazione di amichevoli: Colombo, Margherita Taddei e Francesco Greco. SCIPPI E DOPPI GIOCHI Di Pietro agiva nell’ombra e fiutava l’aria. Il 26 aprile, quando mancavano due giorni alla sentenza del processo, un vicebrigadiere della guardia di finanza si presentò al pm milanese di turno, Raffaele Tito, e parlò di mazzette prese dall’Edilnord di Paolo Berlusconi: Di Pietro orecchiò una conversazione fra Tito e un collega e apprese della faccenda: e senza tanti complimenti scippò l’inchie - sta al collega. Evidentemente ci teneva. Di Pietro procedette subito ad arresti vari soprattutto quandoincrociòlapista delle verifiche fiscaliaTelepiù, una strada che l’avrebbe portato dove voleva. Ufficialmente,però,non c’erano attriti: gli scarni fascicoli che menzionavano il Cavaliere erano tutti intestati a meno noti colleghi. Il 6 maggio Berlusconi chiamò Gianfranco Fini e gli propose l’idea: al ministero dell’Interno ci mettiamo Di Pietro. Fini era d’accordo, Bossino.Tonino godeva di incredibili favori popolari: era un personaggiopositivoper il 93,5per centodegli italiani enegativo solo per l’1,5, quando Berlusconi era ritenuto positivo dal 48 per cento e molto negativo dal 22. Poi saltò tutto: Di Pietro, sconsigliato, rifiutò la proposta. Resta il fatto come testimoniato anche dall’amico Piercamillo Davigo, che considerò seriamente l’idea di accettare. Silvio Berlusconi la metterà così: «Di Pietro mi disse che avrebbe accettato se Scalfaro non fosse intervenuto su Francesco Saverio Borrelli per fermarlo». Borrelli dirà solo questo: «Di Pietro tornò a Milano e ci raccontò di essere rimasto affascinato dalla simpatia del Cavaliere ». Mentre Antonio D’Adamo, amicone di Di Pietroe buon conoscente di Berlusconi, aBrescia, metterà a verbale che Tonino nell’arco di tutto il 1994 l’aveva incaricato di palesare continua «vicinanza » a Berlusconi: il quale, delle inchieste sulla Fininvest, non doveva preoccuparsi.Ha inizio più o meno da qui – anzi, forse era già cominciato da un pezzo – il doppio e triplo gioco di Antonio Di Pietro con e contro Berlusconi, con e contro i colleghi del Pool, con e contro il fare politica. Seguirono segnali contraddittori. Tutta la scenata per bloccare il Decreto Biondi, per iniziare: Di Pietro, alle 19 del 15 luglio, scravattato e coll’aria sfatta, parlò al Tg3 e scatenò un inferno che bloccò il decreto. Intanto l’avvocato Carlo Taormina denunciava che Di Pietro aveva promesso la libertà ad alcuni finanzieri se avessero fatto il nome di Berlusconi, mentrealla finedel meseagosto l’idea che potesse nascere una nuova maggioranza di destra serpeggiavadisinvolta neipalazzi romani e nelle redazioni dei giornali. Qualcuno osava proporlo: Di Pietropremier. Di Pietro si lasciò corteggiare soprattutto dall’alloraCcd e da Alleanza nazionale. Non passarono due giorni e il 16 settembre ecco di nuovo il ”Corriere della Sera”, solare: «Di Pietro contro Berlusconi». Il quotidiano anticipava stralci di un commentario sulla Costituzione, firmato da Di Pietro, in cui la politica del governo Berlusconi veniva accostata a quella delMinculpop. COMMEDIA NAPOLETANA La tensione attorno al governo Berlusconi - o meglio attorno a Berlusconi - si era comunque fatta tangibile: i suoi uomini più fidati erano tutti indagati (da Fedele Confalonieri ad Adriano Galliani, da Marcello Dell’Utri al cugino Giancarlo Foscale sino all’avvocato Massimo Maria Berruti, senza contare il fratello) mentre Rocco Buttiglione la buttava lì: «Sedovessero indagare Berlusconi, la destra potrebbe pensare di sostituirlo con Di Pietro ». Con tutto ciò che accadde attorno al mandato di comparizione ricevuto da Silvio Berlusconi il 22 novembre 1994 - a Napoli - si sono riempiti libri interi. Di Pietro vergò il mandato e poi si dileguò, andò a Parigi come a dire che lui non c’entrava. Una guerra ambigua e sotterranea portò alle dimissioni del governo ma anche a quelle di Di Pietro dalla magistratura, eppure la commedia proseguiva: il 6 dicembre, all’indomani delle dimissioni di Tonino, Berlusconi disse: «Penso di incontrarlo molto presto, inpolitica potrebbeessere un’ottima cosa, le tv e i giornali della Fininvest sono stati sempre in prima linea nel difenderlo. La sua spinta alla moralizzazione sarebbe un patrimonio prezioso per tutto il Paese». Di abbagli, insomma, ne prese tanti anche Berlusconi. A sua parziale discolpa c’era che Antonio D’Adamo gli continuava a portare ambascerie dipietresche sin dall’arroventato novembre 1994: mi prega di riferirle - era stato il sostanzia le messaggio - che il Pool vuole distruggerla politicamente e che lui però non è d’accordo; dice che il mandato di comparizione lui l’aveva firmato malvolentieri. La doppiezza di Tonino esplose definitivamente in primavera. Il 13 aprile il Cavaliere telefonò a ”Tempo reale” di Michele Santoro e disse: «Mi risulta che Antonio Di Pietro non fosse così convinto di quell’atto firmato da tutto il Pool». Aggiunse che Di Pietro gli aveva parlato il 18 febbraio direttamente ad Arcore, nella tana del lupo, e la rivelazione fu paralizzante per tutti. Borrelli chiamò Di Pietro e gli disse testualmente: «Smentisci o ti faccio buttare giù dalle scale a calci nel sedere». Ma Tonino, sulla ”Stampa” del 15 aprile, si limitò adire che «di ogni atto cheho firmatomi assumo la responsabilità», e, circa l’indagine su Berlusconi, che «resta da capire se si tratta di unfenomeno corruttivo oppure di una patita concussione». Il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio non fu contento: «Non era quello che ci aspettavamo». Figurarsi Borrelli: «Il suo è un silenzio colpevole». Il 18 aprile il Pool s’incontrò anche a cena, ospite Di Pietro: ma non servì a nulla. Non chiarì, era sfuggente, «un politico» ammetteranno i suoi ex colleghi. QUEL 25 LUGLIO Servirà ancora del tempo per smascherare il furbastro una volta per tutte. Il Cavaliere vedrà interrompersi le ambascerie dipietresche solo a partire dal 25 luglio 1995, giornoin cui, interrogatoa Brescia, verificherà quante testimonianze descrivevano l’ex pm come determinatissimo nel volerlo processare: «Scopro che è stato Di Pietro a insistere per l’invito a comparire, rimango stupefatto».E verrà la più autorevole delle conferme: il procuratore capo Borrelli, sempre a Brescia, testimonierà che il 25 novembre precedente un risoluto Tonino aveva invocato che Berlusconi lo lasciassero a lui: «Ci vado io al dibattimento, perché io, a quello, lo sfascio». Parliamo di quasi sedici anni fa: e Di Pietro, da allora, non ha fatto che riprovarci. Domani vedremo come.