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 2009  dicembre 16 Mercoledì calendario

IL LUNGO INVERNO DEL DEBITO - MENTRE

Obama striglia i banchieri, la ripresa mondiale è minacciata da un nuovo pericolo: quello dei debiti pubblici. Alcuni Paesi come Grecia e Portogallo sono a rischio default, mentre in Irlanda per evitare il collasso delle finanze il Governo sta addirittura riducendo del 5% gli stipendi dei dipendenti statali con redditi inferiori ai 30.000 euro. In questo scenario l’Italia, il cui debito continua a salire per inerzia, sia pure lentamente, deve conservare una politica di assoluto rigore sui conti pubblici, se possibile riducendo la spesa e non aumentandola.
Tanto più che il buon andamento del Pil italiano nel terzo trimestre (+0,6%) dimostra le notevoli capacità di ”tenuta” del nostro Paese in questa crisi. Ma è altrettanto vero che dal punto di vista economico ci attende un inverno lungo e freddo, anche perché la crisi mondiale non è affatto finita e intorno a noi stanno male. Il Giappone ha appena rettificato clamorosamente la sua crescita trimestrale riducendola ad un modesto +0,3% rispetto al +1,2% annunciato trionfalmente solo qualche settimana fa. La Francia non riesce ad accelerare (+0,3%), mentre gli Stati Uniti (+0,7%) rimbalzano artificialmente soltanto grazie al più grande piano mondiale di rottamazione delle auto sinora messo in campo e alla crescita della spesa militare. In Germania il Pil aumenta trainato in modo anomalo dagli investimenti e dalle scorte ma i consumi privati subiscono un brusco stop (-0,9%). Spagna e Gran Bretagna, poi, sono ancora in piena recessione (-0,3% i Pil di entrambe).
Per contro, la ripresa della nostra economia appare ben equilibrata nelle sue diverse componenti: consumi, export ed investimenti. Il tutto senza fare spesa pubblica, anzi riducendola leggermente. Siamo solo agli inizi della risalita, sia chiaro. Ma è di buon auspicio la buona dinamica dei consumi delle nostre famiglie (+0,4%), che sono poco indebitate, rispetto alle disastrose situazioni di quasi tutti gli altri Paesi europei, dove la spesa domestica è ancora ferma (Francia) o in calo (Inghilterra, Spagna, Olanda, Germania). Andando avanti di questo passo nel 2011 i consumi italiani saranno già tornati in termini reali ai livelli del 2007, il che dimostra una volta di più che le nostre difficoltà vengono principalmente dall’export, cioè dalle crisi altrui, e non da fattori interni.
Qualcuno ha già obiettato che sarebbe solo apparenza il fatto che l’Italia sia diventata improvvisamente una specie di piccola ”locomotiva”, perché i suoi ritmi di crescita prima dello scoppio della crisi erano molto bassi. Ciò in parte è vero, ma la realtà è che non erano i nostri tassi di crescita ad essere deboli, bensì erano artificialmente troppo forti (ed insostenibili nel tempo) quelli degli altri.
Storicamente, dalla fine del secondo conflitto bellico sino al 1995, il tasso annuo di aumento del Pil pro capite di Italia, Germania e Giappone è stato di gran lunga superiore a quello di Stati Uniti e Gran Bretagna. Quella era la regola. Ma dal 1995 al 2007 le economie dei Paesi anglosassoni e di diverse nazioni del Nord Europa hanno ”innestato la quarta” dando qualche punto di distacco in termini di crescita del Pil a Giappone, Germania, Italia e persino alla Francia. Ed è esploso il fenomeno della Spagna dei ”miracoli”, che cresceva addirittura più di Gran Bretagna e Stati Uniti, superata solo dall’Irlanda.
Ora però sappiamo cosa c’era dietro quei ”miracoli”. La ricerca e sviluppo, le liberalizzazioni e la meritocrazia esaltate in molti pamphlet come motori di sviluppo (pur essendo fattori a cui noi stessi attribuiamo grande importanza in linea di principio) nel caso specifico hanno avuto ben poco peso nel determinare la superiore crescita economica di quei Paesi, che hanno invece drogato i loro consumi e i loro investimenti nel settore immobiliare con una montagna gigantesca di debiti privati. Tra il 1995 e il 2007, ad esempio, i debiti delle famiglie inglesi sono cresciuti in valore assoluto più dei debiti di tutte le famiglie francesi, italiane, tedesche ed austriache considerate assieme. Alla fine la ”bolla” è inevitabilmente scoppiata: negli Stati Uniti come in Inghilterra, in Irlanda come in Spagna, in Olanda come in Islanda. Tutti Paesi dove ora la disoccupazione galoppa, con i consumi delle famiglie e l’edilizia allo stremo delle forze.
Di fronte alla corsa senza freni dei debiti privati e al diffondersi della piaga dei titoli tossici in cui tali debiti erano stati ”impacchettati” e poi sparpagliati nel mondo, le banche sono collassate. Per tutelare i risparmiatori i governi allora hanno dovuto salvarle, in alcuni casi addirittura nazionalizzandole. ciò che è accaduto in Gran Bretagna. I costi dei salvataggi delle banche hanno già più che bruciato la presunta superiore crescita economica americana o inglese vantata negli anni precedenti nei confronti di paesi definiti ”tartaruga” come l’Italia. Un recente rapporto del National Audit Office britannico, ad esempio, ha stimato in 850 miliardi di sterline l’impegno finanziario dello Stato a supporto del sistema bancario inglese. Tanto per intenderci, a valori correnti ed a cambi 2007, in dodici anni, tra il 1995 e il 2007 il tanto esaltato Pil della ”lepre” Gran Bretagna era cresciuto più di quello della ”tartaruga” Italia di ”appena” 198 miliardi di sterline, cioè meno di ¼ rispetto all’ammontare impegnato sino a questo momento dal governo inglese per il salvataggio della City.
In realtà, negli ultimi 15 anni all’interno del gruppo dei Paesi più avanzati non ci sono state ”tartarughe e lepri”, bensì solo ”formiche e cicale”. Il disastro di questa crisi economica, provocato dall’implosione della tecno-finanza anglosassone e della globalizzazione cino-americana, è davanti agli occhi di tutti. Probabilmente l’economia dell’intero pianeta risulterà menomata per un lunghissimo periodo.
Il fatto che questo processo di globalizzazione finanziaria e commerciale senza regole abbia generato qualche decina di milioni di cinesi più ricchi non ci deve far dimenticare che mezza Africa muore ancora di fame e che a seguito delle massicce delocalizzazioni delle fabbriche in Asia (dove non c’erano regole ambientali) l’inquinamento globale è molto cresciuto. Inoltre, a causa dei dumping asiatici il lavoro manifatturiero è diventato assai precario in tutto l’Occidente. Mentre gli alti profitti persino in questi difficili tempi di crisi delle grandi catene multinazionali della distribuzione e delle banche ”too big to fail” la dicono lunga riguardo a chi ha fatto veramente comodo il modello di sviluppo ideologicamente e culturalmente dominante negli ultimi anni.
Con lo scoppio della crisi mondiale tutta questa impalcatura ha però subito un duro colpo. Il debito privato si sta scaricando su quello pubblico di molti Paesi ”cicala” come Usa e Inghilterra che hanno vissuto per troppo tempo al di sopra delle loro possibilità. Martin Wolf ha scritto qualche giorno fa sul ”Financial Times” che sinora ”il motivo per il quale le agenzie di rating non hanno declassato il Regno Unito è che se l’avessero fatto, avrebbero dovuto per logica conseguenza declassare anche gli Stati Uniti”. E che ”in nessun caso, però, possiamo sottrarci a una scomoda verità: né il Regno Unito né gli Stati Uniti sono ricchi quanto si credeva un tempo. Si dovranno condividere le perdite, buona parte delle quali ricadranno sulla spesa pubblica, sulle tasse o su entrambe. Una volta che sarà palese che nessuno di questi paesi potrà rivelarsi all’altezza della sfida, le crisi fiscali saranno inevitabili”.
Sono parole pesanti che trovano però riscontro anche in alcuni indicatori di rischio della fiscalità pubblica recentemente elaborati dal Fmi secondo i quali Stati Uniti ed Inghilterra pagheranno a caro prezzo la loro crescita economica non sostenibile degli ultimi anni. Infatti, dovranno ”italianizzare” il loro debito pubblico, avendo però famiglie che sono già indebitate in rapporto al Pil tre volte di più di quelle italiane. Secondo il Fmi nel 2014 il rapporto debito pubblico lordo/entrate fiscali degli Stati Uniti balzerà a 3,6 mentre quello della Gran Bretagna raggiungerà i livelli dell’Italia a quota 2,7.
L’Italia ”formica” deve essere consapevole che la crisi mondiale non è ancora finita e che dal punto di vista economico ci attende un lungo e freddo inverno. perciò essenziale mantenere il più possibile in ordine i conti dello Stato, perché è sul terreno delle finanze pubbliche e della loro credibilità, come dimostra il caso della Grecia, che nei prossimi anni si giocheranno le capacità di sopravvivenza dei vari Paesi.