Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  dicembre 16 Mercoledì calendario

Quando Darwin sconfisse i samurai - Il mio maestro, il professor Guido Grandi, uno dei più eminenti entomologi del secolo appena passato, aveva avuto l’occasione di parlarmi più volte di un suo amico per corrispondenza, se si potesse dir così, un altro entomologo, giapponese per di più, che si occupava di efemerotteri, insetti proverbialmente noti per la breve durata della loro vita

Quando Darwin sconfisse i samurai - Il mio maestro, il professor Guido Grandi, uno dei più eminenti entomologi del secolo appena passato, aveva avuto l’occasione di parlarmi più volte di un suo amico per corrispondenza, se si potesse dir così, un altro entomologo, giapponese per di più, che si occupava di efemerotteri, insetti proverbialmente noti per la breve durata della loro vita. Si trattava di Kinij Imanishi, e il mio professore aggiungeva che quell’entomologo era uno dei più eminenti interpreti dell’evoluzionismo dalle parti del Sol Levante. Appresi in seguito che Imanishi era stato invitato come visiting professor all’università di Reading, in Inghilterra, ospite del professor Halstead, che l’aveva, diciamo così, provocato a esprimersi su Charles Darwin. Con una certa spocchia, che la si poteva prevedere, vista l’autorevolezza dello scienziato giapponese, l’interpellato aveva introdotto il dibattito con un aforisma: «Darwin abita l’Occidente e Imanishi l’Oriente». Si è capito allora che Imanishi considerava, sì, l’evoluzione come un fatto, ma in quanto ai suoi meccanismi, la selezione naturale, non era per nulla d’accordo. Semplificando la questione: Imanishi non credeva alla lotta per la vita. O per lo meno era propenso a minimizzarla, perché tutto il pensiero orientale era, secondo lui, più incline all’armonia, alla collaborazione, al reciproco scambio di favori. Tra le due facce di quel Giano bifronte che poteva costituire una metafora statuaria della teoria darwiniana, alla faccia che premiava la competizione e la selezione preferiva l’altra, quella del mutuo appoggio e delle alleanze. Non si capisce, allora, come lo scienziato giapponese potesse considerare Darwin il più grande scienziato dell’Occidente, se metteva in forse la scoperta più cruciale, la selezione naturale. Perché, prima dello scienziato inglese, la trasformazione degli organismi, in parole povere l’evoluzione, era già stata chiamata in causa numerose volte, per fare solo qualche nome, da Buffon, da Erasmo, nonno di Charles, e soprattutto da Lamarck, che ne aveva fornito delle spiegazioni come l’ereditarietà dei caratteri acquisiti. Dunque, Darwin non ha scoperto l’evoluzione, ma il suo meccanismo: la sopravvivenza dei più atti, che fanno più figli, e la eliminazione dei meno atti, che sono spazzati via senza pietà. Dalla selezione naturale, per l’appunto! Ora, come faceva il bravo Imanishi a restare un evoluzionista coerente, se non aveva nessuna ipotesi da porre a confronto con il meccanismo darwiniano? In realtà, in un suo saggio pubblicato in inglese nel 1984 Imanishi scrive: «Tutti gli individui cambiano nello stesso tempo, quando arriva il momento di cambiare». In parole povere, l’evoluzione avverrebbe attraverso una sorta di maturazione di una specie, che si trasforma in un’altra, e il fatto che questo cambiamento si verifichi su tutto il pianeta ricorda quanto teorizza Daniele Rosa nella sua Ologenesi. In qualche maniera, e non so se sia proprio giusto dire così, Imanishi, come tanti evoluzionisti prima di lui, pensa che il passaggio di specie sia determinato non dalla selezione naturale, ma da cause interne, simili, io penso, all’«élan vital» di Bergson. Ma, se Imanishi rilegge attraverso il filtro della filosofia orientale l’evoluzione, sulla metà del secolo appena passato un altro giapponese, Mooto Kimura, raccoglie il suo guanto di sfida e, a sua volta, cerca di bandire del tutto la selezione naturale, affidando il decorso del fenomeno evolutivo esclusivamente al caso. Questo scienziato comincia affermando che molte di quelle piccole variazioni che oggi chiamiamo mutazioni e che, se favorevoli, alla sopravvivenza, erano, secondo Darwin, premiate dalla selezione naturale, risulterebbero, invece, neutre, di nessuna utilità nel favorire gli individui che ne sono depositari. Quindi come potrebbero offrire una presa alla selezione naturale? La trasformazione delle specie, secondo Kimura, algoritmi alla mano, sarebbe determinata da quelle che potremmo definire fluttuazioni di probabilità. Nulla osta che nel gioco del lotto uno stesso numero venga, per caso, pescato molte volte in successione ed è un’emergenza che crea una grande suspense nei fans delle terne, quaderne e così via. Allo stesso modo, e consentitemi di semplificare le cose in maniera a dir poco brutale, potrebbe succedere che un certo carattere tenda a venir conservato, e posto in enfasi, da una serie di casi fortunati, fino a dare origine a una nuova specie. In principio, gli evoluzionisti ortodossi pensarono con sgomento che Darwin e la sua selezione naturale fossero un miraggio e che il vero regista dell’evoluzione non fosse altro che il caso. Per disdetta, gli algoritmi presentati a suffragio da Kimura, che non era un biologo proclive a fantasticare come Imanishi, ma un importante genetista che stava ai numeri, non erano facilmente confutabili. Dopo qualche anno di panico e di perplessità si è finito per capire come le idee di Mooto Kimura potevano integrarsi con la selezione naturale, costituendo un aspetto non sostitutivo, ma complementare, del meccanismo evolutivo. Mi piace finire con un piccolo esempio. Alcune farfalle dell’America del Sud (Heliconius spp.) presentano dei colori di un’altra specie di lepidottero immangiabile, per cui gli uccelli la credono tale, evitando di predarla. Altre farfalle dello stesso gruppo non possiedono le livree protettrici e sono prese di mira regolarmente dagli uccelli insettivori. Bene - e qui il lettore dovrà fare un po’ di fatica per capire - si è visto che i geni codificanti la colorazione mimetica sono omozigoti e, quindi, si suppone che siano mantenuti sotto il controllo della selezione naturale, mentre i geni che codificano altre funzioni sono soggetti a mutazioni casuali. In parole povere, la selezione naturale si esercita su geni indispensabili alla sopravvivenza, mentre quelli neutrali obbediscono alle tabelle di Kimura. Darwin ha sconfitto i samurai!