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 2009  dicembre 16 Mercoledì calendario

«Massimo e gli psicofarmaci I miei 24 anni cercando la cura» - Il padre: « un malato, non un criminale

«Massimo e gli psicofarmaci I miei 24 anni cercando la cura» - Il padre: « un malato, non un criminale. Spero che Silvio capisca» - Una delle prime cose che papà Alessandro ha fatto, ieri mat­tina, è stata scendere fino all’androne e attaccare un bigliettino sul muro, a lato delle sei cassette delle lettere. Gra­zioso stampatello, una grafia leggera, ordinata, un filo pendente a destra. Sul bigliettino c’era scritto: «Comuni­cazione ai sigg. Condomini. La fami­glia Tartaglia chiede scusa per i disagi arrecati». Chiede scusa, il papà di Massimino Tartaglia, per i microfoni, i citofoni che ormai fondono, le telecamere. Il papà sale su dalle scale del box tutto curvo, i giornalisti lo spaventano, sembra volersi girare e scappare, si al­za il giubbetto sul volto e appoggia il volto al braccio come se volesse na­scondersi, non farsi riconoscere. an­dato a dare un’occhiata in fabbrica, una fabbrica che produce apparecchia­ture elettriche, è andato lì a vedere se il lavoro procede, se ci sono clienti e di solito il martedì ci sono. Poi è torna­to, mezzogiorno e un quarto. Come va, signor Tartaglia? «Io e tutta la mia famiglia abbiamo già chiesto scusa». Ingobbito, piccolo piccolo. «Chiedere­mo ancora scusa». La mano avanti, vi prego fatemi passare. «Siamo scossi, rammaricati». L’inflessione dialettale del sud, è originario della Basilicata. «Siamo preoccupati». Perché? «Mio fi­glio è un ragazzo malato e rischia di passare per un criminale. Non è un cri­minale. Massimo è soltanto un ragaz­zo malato». Ragazzo. Malato. Massimo (Massi­mino per i rari amici) Tartaglia ha 42 anni. Psichiatri vari lo curano da 24 anni. Quando in casa c’erano i soldi, lo psichiatra era privato; se mancava­no, era pubblico. La porta dei Tartaglia è l’unica, nel­la palazzina, senza addobbi natalizi. C’è la targhetta del cognome, e basta. Dopo la porta sulla destra c’è subito una libreria, bassa, che parte dal pavi­mento, con libri di informatica; an­dando avanti, nel trilocale, c’è il salot­to oltre il quale c’è la cameretta di Massimino (letto a una piazza, scriva­nia con computer, quadretti con di­pinti dei fiori). Dopo la libreria, la cu­cina. Alle pareti, quadri con campi e boschi. Spenta la televisione, messo il silenziatore al telefono, lasciati accesi i cellulari che suonano poco. Padre, madre e l’altro figlio sono se­duti attorno al tavolo e vi rimarranno a lungo. Ogni tanto la madre esce sul balcone, che circonda per tre quarti l’appartamento, osserva fiori (nume­rosi) e piante (grandi e grosse), dà una spolverata con la mano alle fo­glie, rientra. Il balcone si affaccia sul cortile di un altro stabile; il balcone si vede benissimo dal marciapiede che porta alla farmacia, dove giurano di non aver mai venduto psicofarmaci ai Tartaglia. Li compravano lontano da questa via Giuseppe Giusti, centro di Cesano Boscone, 24 mila abitanti al confine con la periferia di Milano. Papà Alessandro spera che «Silvio capisca la malattia di mio figlio». Lui, quella malattia appena l’ha scoperta ha cercato di arginarla. Da soli «non ce la facevamo». Allora «ci siamo ri­volti agli psichiatri, che davano gli psi­cofarmaci ». Lo ripete anche l’altro fi­glio, Maurizio, che vive in un altro pa­ese, con compagna: « stata dura. Du­rissima. Lo abbiamo portato dagli psi­chiatri. Non è mai stato lasciato solo». Negli ultimi tempi, dicono, Massimi­no saltava gli orari di assunzione, mo­dificava la quantità delle medicine. Quanto c’è di vero? « da quando ha 18 anni che ha i suoi farmaci» dice il padre. A metà giornata, sotto il bigliettino all’ingresso ne compare un secondo. «Nessun disagio. Vi siamo vicini. La famiglia Arrigo». Gli Arrigo abitano al piano terra, la signora è appena rien­trata dal lavoro, si occupa di disabili. All’alba, aveva inserito nella cassetta delle lettere dei Tartaglia una letterina per far sapere che «non vi giudichia­mo per quanto successo a Massimo». La signora Arrigo si confida: «Voi che scrivete dovreste aprire un dibattito sulle malattie mentali. Ci sono ancora luoghi comuni, tabù. Massimo? No, non mi permetterei mai di commenta­re. Deve avere sofferto tantissimo». Le crisi di Massimino erano quoti­diane. stata una crisi, quella di do­menica, signor Tartaglia? « usci­to di casa, ha detto che andava a farsi un giro. Non so per­ché abbia agito in quel modo». E la sta­tuetta? « Purtroppo, queste persone sono imprevedibili». Ma ci sono mai state altre te­rapie, altre strade? Pa­pà Alessandro aveva ac­cettato di iscrivere Mas­simino all’università (presto mollata), di por­tarselo in ditta, di farlo socio a tutti gli effetti; mamma Donata aveva detto sì, di re­cente, a un week-end con gli amici in Francia e all’iscrizione in piscina, che il figlio frequentava con assiduità. Di­cono gli piacesse la pallanuoto, e invi­tano a rivedere la scena di domenica: Massimino si issa sulle punte, cerca di coordinarsi, lancia la statuetta. Se­quenze proprie di un pallanotista che vuol segnare. Come sta, suo figlio, signor Tarta­glia? «Voglio vederlo per capire cosa è scattato nella sua testa. Adesso, l’im­portante è che tutto vada bene per il dottor Berlusconi». Berlusconi, la poli­tica. Siete del Pd? «In famiglia, di poli­tica non si parla quasi mai. Se lo fac­ciamo, ma sono poche volte, è per commentare qualcosa visto ai tele­giornali », e forse, adesso che l’ha con­fessato, anche per quelle poche volte il signor Tartaglia vorrebbe chiedere mille e mille volte scusa.