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 2009  dicembre 15 Martedì calendario

Il comunismo salvato dal mercato - Il comunismo dell’impero sovietico? Lo ha salvato il mercato, procrastinandone per più di sette decenni lo sfascio totale

Il comunismo salvato dal mercato - Il comunismo dell’impero sovietico? Lo ha salvato il mercato, procrastinandone per più di sette decenni lo sfascio totale. «Un mercato particolare, certo, quello che definiamo ”nero”, illegale e sotterraneo: ma non era forse ogni sistema di domanda e di offerta quella caratteristica tipica delle organizzazioni sociali capitalistiche che il marxismo-leninismo ha sempre considerato come il nemico primo d’abbattere a tutti i costi e con ogni mezzo?» Per paradossale che possa apparire, la tesi del salvataggio del collettivismo istituzionalizzato da parte dell’intrapresa libera, o quantomeno dell’arrangiarsi di soppiatto alla bell’e meglio, è vera. L’ha ricordata ieri, recuperandola dal dimenticatoio di tante analisi sulla realtà sovietica, il sociologo Luciano Pellicani, docente alla Luiss di Roma, sue le parole qui sopra, intervenendo al convegno A vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino: bilancio storico e mutamento dello scenario internazionale, organizzato a Milano dalla Fondazione Bettino Craxi. Analizzando le definizioni che i suoi padri ideologici, Karl Marx e Friedrich Engels, hanno dato del comunismo, Pellicani ne ha sottolineato «la costante essenza negativa», sempre tesa a definire la lotta di classe come strumento distruttivo della società esistente, ariete lanciato contro l’’ipocrisia borghese”, grimaldello per ottenere lo scardinamento degli apparti statali. Queste premesse, ha osservato il sociologo, «tutto promettevano quindi, tranne che l’edificazione, alquanto veloce, di una struttura statale capace di durare nel tempo, di espandersi geograficamente e di conquistare milioni e milioni di persone». Proprio il crollo rapido sarebbe toccato infatti all’Unione Sovietica se il corso della sua vicenda politica non fosse stato turbato da elementi esterni. Il mercato, appunto. Appoggiandosi alle analisi proposte da economisti e scienziati sociali quali Ludwig von Mises e Joseph Schumpeter, Pellicani ha ricordato che, «senza il circolo virtuoso innescato della competizione e dell’intrapresa, le società, tutte, stagnano e alla fine implodono. E che proprio per questo la longevità sovietica è spiegabile, tra l’altro, anche grazie al decisivo ruolo svoltovi da un’economia libera benché sommersa, di cui tutti sapevano ma che tutti ben si guardavano dal denunciare». Oltre che dalle ingenti risorse minerarie di cui ha sempre goduto, dalle ricchezze accumulate prima della rivoluzione bolscevica e quindi poi espropriate, e, in era brezneviana, dal commercio petrolifero, l’Urss ha retto grazie a trafficanti e trafficoni. Fu così ai tempi di Lenin, e fu così persino nel regime tetro e rigido dell’era staliniana. Ma tagliare quel canale nascosto che portava linfa vitale all’intero sistema avrebbe significato il suicidio. Lo aveva detto del resto già Lenin che i bolscevichi avrebbero venduto ai nemici capitalisti la corda con cui alla fine li avrebbero impiccati. Solo che il cappio si è invece serrato attorno al collo degli apprendisti stregoni comunisti. Con quest’analisi ha concordato Stéphane Courtois, lo studioso francese che a suo tempo coordinò il pool di studiosi che produsse Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione (Mondadori, 1989). Courtois ha efficacemente ricordato che «Mikhail S. Gorbacëv, l’uomo nelle cui mani l’Urss implose, è stato un leader perfettamente comunista, giunto alla carica di Segretario generale del Pcus ”per caso”, dalla provincia, in seguito alla morte ravvicinata di ben tre suoi predecessori, e quindi sostanzialmente impreparato a controllare le forze di libertà oramai in marcia da tempo che in quel frangente storico erano divenute dirompenti. Non fu merito di Gorbacëv, quindi, se il sistema sovietico finì, ma Gorbacëv, l’uomo giusto al momento giusto (per chi da troppo tempo languiva nella morsa dell’impero comunista), non poté farci nulla». Nikolaos Marantzidis, giovane e brillante studioso dell’Università di Salonicco, ha dunque rafforzato il quadro con uno studio di marketing. «Il sistema comunista», ha spiegato, «era come una multinazionale. Quando l’impresa madre non è più stata capace di reggere il peso della concorrenza, ha cercato di vendere le filiali per sopravvivere; ma si è trattato di un obiettivo affatto semplice da raggiungere».