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 2009  dicembre 16 Mercoledì calendario

LUCA TELESE PER PANORAMA 16 DICEMBRE 2009

Sono deputato al dolore Il senso di colpa, gli incubi, la morte di un altro operaio della Thyssen il 1° dicembre. Antonio Boccuzzi racconta la sua vita a due anni esatti dall’incendio. «Sto male» dice. «Ma in Parlamento oggi sono utile a quelli come me».

La giacca se l’è dovuta mettere, perché per poter entrare a Montecitorio è un obbligo. Ma il codino, no. A quello non ha rinunciato. la domanda più frequente che gli fanno, da quando è stato eletto: «Ma perché non te lo tagli?». Antonio Boccuzzi, operaio, superstite del rogo della ThyssenKrupp del 5 dicembre 2007 e da 19 mesi deputato del Pd, la risposta vera a quella domanda la dà raramente. Molti pensano che il codino, insieme con quel taglio curioso (capelli lunghi al centro, rasati corti sulle tempie dove sono più chiari) sia un vezzo. Invece è anche quello un segno della tragedia che si porta addosso: «Il giorno del funerale dei miei compagni» racconta «Nino Santino, il padre di Bruno, mi fece: ”Te lo dico io cosa è successo. Te ti sei salvato perché avevi questo codino, e un angelo è riuscito a prenderti per i capelli, e a tenerti lontano dal fuoco”».
Quel giorno Boccuzzi ha fatto un fioretto: «Avrei tenuto la coda in ricordo di quell’angelo. E anche perché» sorride amaro «nella vita non si sa mai».
Due anni dopo il rogo, Panorama ha incontrato il sopravvissuto della Thyssen per provare a misurare il tempo e le storie che cambiano una vita, dall’inferno delle fiamme agli scranni della Camera. Ma anche perché la tragedia che si ripete: l’appuntamento per l’intervista era stato appena preso quando il 1° dicembre è arrivata la notizia che alla TyssenKrupp di Terni era morto Diego Bianchina, un ragazzo di 31 anni ucciso dalle esalazioni dell’acido. Non si può che partire da quest’ultima vittima.
Onorevole Boccuzzi, lei se l’immaginava un anniversario così?
Sinceramente no. Però non credo alla parola che ho letto su molti giornali, in molti commenti: «Fatalità».
Allora c’è sempre un colpevole quando muore un operaio?
Fatalità vuol dire che sarebbe accaduto in ogni caso. E invece ho imparato che ci sono sempre delle scelte, piccole o grandi, che producono una tragedia.
Per lei è un caso che avvenga di nuovo alla Thyssen?
Assolutamente no, e vanno presi provvedimenti. Io noto anche che questa azienda tiene atteggiamenti diversi, sulla salute dei loro lavoratori, a seconda del fatto che siano in Germania o in Italia. In Germania è un’azienda modello, rispettosa dei protocolli.
E in Italia?
A volte sembra che quei dirigenti si siano totalmente dimenticati che sulle sue linee lavorano delle persone in carne e ossa.
Dopo due anni in Parlamento si sente ancora un operaio «prestato alla politica»?
(Scuote la testa) Io la tuta blu ce l’ho tatuata sul corpo, non me la potrei togliere nemmeno volendo.
Non si è imborghesito nemmeno un po’?
Ecco due esempi: vivo ancora in affitto, e ho sempre la stessa macchina, una Alfa 147 vecchia di otto anni.
Non c’è nulla di male...
E infatti non penso che sia un male. Ma io e mia moglie, come tante famiglie italiane, avevamo più di 30 mila euro di debiti, prima del rogo. Abbiamo passato questi anni a pagarli, non abbiamo ancora avuto l’opportunità di inborghesirci.
Un giorno in cui la sua elezione le è sembrata del tutto inutile c’è stato?
Tre settimane fa abbiamo passato due giorni a dibattere, a Montecitorio, sulla normativa che deve regolare la lunghezza delle code dei cani. Con tutta la crisi che c’è, fatico a spiegarlo ai miei amici come possa accadere.
E un giorno in cui si è sentito utile?
Quando, discutendo sulla legge per la sicurezza nei luoghi di lavoro e sul famoso articolo 10bis, siamo riusciti a correggere la cosiddetta norma «salva-manager», secondo cui i datori di lavoro non dovrebbero essere considerati responsabili degli incidenti.
Ha scoperto qualche collega di centrodestra che le è simpatico?
Ho un ottimo rapporto con Fabio Granata, una delle teste più lucide del Pdl.
Troppo facile, per lei: è un finiano. Ne dica uno che viene da Forza Italia.
Giuliano Cazzola, il vicepresidente della commissione Lavoro: abbiamo idee molto diverse, ovvio, ma è una delle persone più preparate che conosca, ed è animato da una passione vera.
Nel congresso Pd ha sostenuto Pier Luigi Bersani, ma è stato candidato da Walter Veltroni. Si sente un traditore?
Per nulla. Mi ha rattristato molto il fatto che Veltroni si sia dimesso. Il Pd che aveva in testa lui era il partito a cui ho aderito, non rinnego nulla. Ma sono anche orgoglioso di aver votato Bersani. Spero che possa far nascere il nuovo partito di cui abbiamo bisogno.
Ma lei tornerà mai in fabbrica?
Sicuramente no.
Allora lo vede che, alla fine, in qualcosa «il Palazzo» l’ha cambiata?
No, non è per l’elezione. Non sarei potuto tornare comunque, dopo il rogo. Anche se avessi dovuto fare la fame.
Quanto ci ha messo a superare il trauma dell’incidente?
Non l’ho superato mai.
Nemmeno ora?
A volte penso che, se non avessi avuto al fianco Giusy, mi sarei potuto suicidare.
Che lavoro fa sua moglie?
La commessa in un negozio di abbigliamento. Nei giorni dopo la tragedia io senza di lei avevo paura persino ad andare in bagno da solo.
Contro quali spettri combatte?
Mi sento normale. Ma ci sono giorni in cui mi basta sentire odore di bruciato, o anche solo odore di olio cotto, oppure il suono di una sirena nella notte: basta quello perché mi senta mancare la terra sotto i piedi.
Le costa raccontare queste debolezze?
No. La mia fortuna, rispetto a tanti altri, è stata quella di capire e ammettere che avevo bisogno di un supporto medico.
Molti suoi colleghi non ci riescono...
C’è come l’idea che andare da uno strizzacervelli sia come ammettere di essere pazzi. E invece è l’unico modo per non diventarlo.
Che cosa ha capito, con il medico?
Sono seguito da uno psichiatra e da uno psicologo. La prima cosa che ho dovuto sconfiggere è stato il senso di colpa di essere sopravvissuto.
Come i superstititi dei lager?
Esatto.
Le capita mai di rivedere le sue foto di quel giorno con la faccia ustionata?
Sto imparando ora a controllare i miei pensieri. La domanda che ti scava dentro è: perché loro sì e io no? Quando vedo come ero mi viene in mente questo: un momento prima eravamo in otto, in reparto, a lavorare. Un secondo dopo la fiammata, ero solo.
Lei vede ancora i suoi compagni di fabbrica?
Sì, spesso. Abbiamo avuto le udienze del processo, da seguire. Spesso andiamo a cena insieme.
Si ricandiderà?
Non è un problema che mi pongo adesso.
In tutto questo dolore della Thyssen, due anni dopo c’è stata almeno una conquista?
Oh sì. I 13 milioni di euro di risarcimenti accordati alle famiglie.
Perché?
Sono un simbolo importante. Le vite che ci sono state tolte non hanno prezzo. Ma l’entità del danno è stata riconosciuta come mai in passato. In qualche modo è un’ammissione di colpa.
Della Thyssen...
Sì, ma l’atteggiamento dell’azienda è figlio di un dibattito che nel Paese c’è stato. La nostra tragedia ha cambiato qualcosa anche nel senso comune. Ed è solo questo a fare sì che quei morti non siano stati inutili.