Alessandra Nucci, ItaliaOggi 12/12/09, 12 dicembre 2009
Himalaya senza ghiacci. Anzi no - A giudicare dal sito ufficiale dell’Unfcc, United Nations Framework Convention on Climate Change a Copenhagen si direbbe che tutto è già sicuro e accertato, che la questione che ci si pone non è se agire ma come e quando e soprattutto quanto i paesi «ricchi» devono pagare i paesi «in transito» perché accettino un freno alle loro economie
Himalaya senza ghiacci. Anzi no - A giudicare dal sito ufficiale dell’Unfcc, United Nations Framework Convention on Climate Change a Copenhagen si direbbe che tutto è già sicuro e accertato, che la questione che ci si pone non è se agire ma come e quando e soprattutto quanto i paesi «ricchi» devono pagare i paesi «in transito» perché accettino un freno alle loro economie. Che il progetto di adesione dell’Australia ai piani dei globalizzatori sia fallito prima della partenza, non lo dice nessuno, che associazioni di scienziati dissidenti, bollati come «negazionisti» tanto per avvicinarli un tantino a Hitler, abbiano sottoscritto anche poche settimane fa documenti che contestano l’esistenza dell’ unanimità scientifica, non si ritiene importante. Tantomeno si dice che in città c’è un altro convegno, piccolino ma con fior di scienziati che stanno lì a dire che l’unanimità sul riscaldamento globale non esiste. Che il ministro dell’ambiente indiano abbia sfidato ufficialmente il rapporto con cui due anni fa l’Ipcc aveva previsto un collasso del sistema dei ghiacciai dell’Himalaya è un’altra notizia che, sul sito di Copenhagen, ci starebbe bene. La linea dell’Ipcc è che i ghiacciai potrebbero ridursi dell’80% o sparire completamente entro il 2035, ma, di fronte alla determinazione del Ministro dell’ambiente indiano, l’esperto dell’Ipcc Madhav Khandekar ha ammesso che la data del 2035 è un errore di battitura: la stima vera per tale catastrofe sarebbe il_ 2350. E l’elefante nel salotto buono di Copenhagen naturalmente sono le e-mail rinvenute dall’hacker all’Università di East Anglia: Rajendra Pachauri, il coordinatore dell’Ipcc, ha aperto un’inchiesta e adesso parla d’altro. Tali e-mail hanno avuto il merito di portare il dissenso esistente all’interno della comunità scientifica sulle prime pagine dei giornali, dove non era mai approdato non certo per mancanza di tentativi, dall’appello di Heidelberg del 1992 al Manifesto «Galileo 2001», per arrivare alla lettera aperta inviata due anni fa a Ban ki Moon (conferenza di Bali) firmata da un centinaio di scienziati di paesi diversi. Quasi tutti i paesi influenti del sud del mondo sono contrari agli intendimenti di Copenhagen, ma, a consultare il sito ufficiale, non lo si direbbe mai. La Cina, che brucia il 40% del carbone del mondo, ha gelato tutti dicendo che non intende subire limitazioni fino al 2040. Chi vuole da Copenhagen un accordo a tutti i costi, se non altro per continuare questi viaggi internazionali di alto bordo, immagina che lo faccia per farsi pagare, in denaro e tecnologia, e quindi salta l’ostacolo passando direttamente alla contrattazione: si parla di 200 miliardi di dollari «per aiutare», ha detto il portavoce di una Ong, «le popolazioni povere ad adattarsi al cambiamento del clima». In realtà, quei paesi non vogliono adattarsi, vogliono esattamente ciò che i catastrofisti non vogliono dargli: lo sviluppo economico. E non a base di pale eoliche e pannelli solari, ma a base di impianti nucleari. All’Ue, che è stata alla testa del Protocollo di Kyoto, immaginando che in futuro tutto il mondo si sarebbe lasciato convincere a imboccare la strada della decrescita, questi paesi fanno notare che non ha rispettato le sue stesse regole: secondo i dati Onu, fra il 2000 e il 2006, l’Europa dei 27, nonostante la crisi, ha aumentato le emissioni dello 0,1%.