Guido Olimpo, Corriere della Sera 12/12/09, 12 dicembre 2009
ABSTRACTS!
Il museo dei clandestini: scarpe, Bibbie, biberon al confine Usa-Messico -
AMADO (Arizona) – Un biberon. Un certificato di nascita intestato a «Jeronimo Castro», professione «campesino». Centinaia di scarpe. Decine di zainetti colorati con Titti e altri eroi dei cartoni. Una borsa con l’immagine di Marilyn Monroe. Borracce coperte di stoffa per tenere l’acqua più fresca. Lettere. Bibbie. Libri dotti. Un sussidiario da prima elementare. Schede telefoniche. Opuscoli sui diritti umani. Cinture intrecciate dagli indios. Foto di famiglia con dediche struggenti: «Baderò io ai tuoi figli, non ti dimenticheremo mai». E poi molti «bordados», fazzoletti ricamati e dati al fidanzato o al figlio.
Oggetti normali, dietro i quali c’è una storia, una vita. A volte un dramma. Appartengono agli immigrati clandestini che ogni giorno cercano di raggiungere dal Messico gli Stati Uniti. Superata la barriera, li aspetta un viaggio pericoloso nel deserto. Tre o quattro giorni di cammino su un terreno dove l’acqua è davvero un miraggio. Una regione bella ma spietata: solo quest’anno hanno trovato i resti di 206 persone uccise spesso dalle condizioni proibitive.
Quando i «polleros» – i clandestini – sono vicini all’appuntamento con i veicoli dei trafficanti, sono costretti a buttare il loro piccolo bagaglio. Non c’è spazio sui furgoncini e i banditi non vogliono che i loro «clienti» possano essere identificati come centro o sud americani. E quegli oggetti diventano come il segnale di un naufragio. Cose che «parlano » – come le pagine scritte da un bimbo su un quadernetto – e che ti raccontano qualcosa del loro proprietario. Per questo c’è chi vuole conservarle. Due artiste locali, Valarie James e Antonia Gallegos, raccolgono da anni i «reperti». Loro vivono ad Amado, poche decine a nord del confine con il Messico, lungo una delle rotte dei clandestini. Spesso li vedono passare. Volti spauriti, fisici debilitati dalla fatica. Capita anche di sentirli. Ed è difficile dimenticare se nel cuore della notte sei svegliato dal pianto di un neonato. O dal grido d’aiuto di due fratellini – è accaduto qualche tempo fa – che hanno perso il contatto con il grosso del gruppo.
Esseri umani e non «alieni», come li chiamano con paura e diffidenza quanti temono l’invasione dei clandestini. Valarie, con la sua missione, vuole cercare di dare una voce ai disperati che si infilano in queste terre. Le poche righe vergate con mano incerta dietro un santino o una foto fanno rivivere quelle persone. I bordados rappresentano un piccolo pegno d’amore che l’immigrato adatta alla situazione usandolo per avvolgere un po’ di cibo necessario all’attraversata. Le coperte colorate possono rivelare le origini della persona. Un decreto di espulsione significa che l’immigrato – come spesso accade – ha già provato ad entrare. Tutte testimonianze dirette di un viaggio dall’esito imprevedibile. Prove di sacrifici terribili sostenuti per dare una svolta alla propria esistenza.
Valarie e Antonia provano a conservarne la memoria e a divulgarla: in aprile la gran parte degli oggetti ripescati dal deserto saranno esposti ad una mostra in Svezia. Un riconoscimento per le due donne ma anche per coloro che spesso sono solo un numero nei rapporti sull’immigrazione. E a volte neppure quello, visto che non sono mai riemersi da quel «mare» di terra e arbusti.