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 2009  dicembre 10 Giovedì calendario

Piccolo schermo troppo piccolo per Dio?- Osservando il creato si ha l’im­pressione che Dio ami la complessità

Piccolo schermo troppo piccolo per Dio?- Osservando il creato si ha l’im­pressione che Dio ami la complessità. Osservando la tv si ha invece l’impressione che vi regni solo banalità. Il grande equi­voco di molta comunicazione tele­visiva, compresa quella religiosa, è di confondere la semplicità (che è un grande progetto espositivo) con la banalità (che è solo inerzia comuni­cativa). Come conciliare allora la presenza del divino nella comuni­cazione televisiva? [...] L’esperienza religiosa trova spazio in palinsesto sin dai primi passi della tv italiana, all’inizio degli anni Cin­quanta. A differenza di altri esperi­menti nazionali, infatti, la tv italia­na non nacque ispirata da meri in­tenti commerciali o tecnologici, ma il nuovo medium fu pensato come un vero e proprio progetto cultura­le, fondato alla radice sulle tradizio­ni e sui retaggi culturali condivisi dai suoi spettatori [...]. La forma più im­mediata sperimentata dalla Rai del­le origini è quella più legata al suo ’specifico’, cioè la capacità di an­nullare le distanze e le separazioni temporali per permettere la fruizio­ne in contemporanea di grandi e­venti. E non è un caso che i primi e­sperimenti di trasmissione satellita­re in Europa (Eurovisione) prenda­no vita proprio per dare voce alla pa­rola del pontefice. A benedire que­sta missione di annullamento delle distanze resa possibile dalla tv arri­va anche l’intervento di Pio XII, che elegge santa Chiara a santa patrona del piccolo schermo, per il suo mi­rabolante dono dell’ubiquità. Oltre a questa prima, elementare, modalità di messa in scena del sacro, fortemente connessa allo specifico tecnologico della tv, la Rai e le ge­rarchie ecclesiastiche cercano un ac­cordo per sfruttare il medium come strumento di apostolato, veicolo di evangelizzazione e conversione dotato di una straordinaria capacità di penetra­zione tra i fedeli. proprio tenendo conto di questa po­tenzialità di rag­giungere fedeli spar­si in tutta Italia che la Chiesa italiana cerca di superare il tradizionale atteg­giamento di diffi­denza nei confronti dei media, conside­rati come possibili mezzi di corru­zione. Due le vie: la tv come mes­saggera nell’ambito della macroa­rea linguistica del factual; il raccon­to per immagini di episodi e perso­naggi della storia sacra secondo le modalità tipiche della fiction. Il modello di evangelizzazione passa generalmente attraverso la figura del predicatore, da pa­dre Mariano ai giorni nostri. di si­curo l’aspetto meno interessante, perché avviene secondo modelli ras­sicuranti, di mantenimento (secon­do la formula del ’convertire i già convertiti’), che stingono ben presto nella scontatezza. Il dubbio, il mi­stero, l’enigma sembrano non esi­stere. Per ogni domanda è giocofor­za trovare una risposta e per ogni ri­sposta un esperto pronto a rappre­sentarla. L’esperto, spesso un sacer­dote, è un ’jolly’ che salta da una re­te all’altra ripetendo, infaticabile, il suo responso, atrofizzato nelle sue certezze, forse ignaro di essere nel frattempo diventato Luogo Comune [...]. Con una sola eccezione. Frontiere dello spirito è mosso da un’ambi­zione radicale: far partecipe lo spet­tatore di una gioia difficile ma irri­nunciabile. Una lettura ’viva’ della Bibbia, infatti, comporta che ogni parola trabocchi di senso ed esplo­da in lampi, analogie, rapporti, col­legamenti. Conoscere la ’parola’ si­gnifica immergersi in una sorta di flusso magnetico dove le idee, le no­tizie, le interpretazioni, le illumina­zioni, le sorprese, i piaceri della sco­perta formano una rete di connes­sioni, un’esegesi continua, una i­deale forma di lettura. Ormai, in quasi tutta la tv italiana, solo Gian- franco Ravasi riesce, partendo da un versetto biblico a trasformare il di­scorso in una lezione magistrale. La seconda modalità di messa in for­ma del sacro in televisione è quella legata alla fiction. Anche in questo secondo filone, la tv sembra denun­ciare difficoltà stilistiche e linguisti­che; soprattutto sembra faticare nel percorrere una strada che comuni­chi la religione in modo semplice (a­deguandosi al target televisivo me­dio), senza però banalizzarne i con­tenuti. Un interrogativo fondamen­tale che sorge poi quando si parla di trasposizioni televisive di episodi e personaggi della storia sacra è come può il visibile (la tv, il cinema, gli au­diovisivi) misurarsi con l’invisibile (il fascino del racconto sacro). La tv e il linguaggio audiovisivo vivono in­fatti di evidenza, di prossimità. In I­talia si è risolto il quesito con il mo­dello dell’agiografia: un flashback i­niziale in cui l’uomo non comune è sul letto di morte e ri­pensa alla sua vita; un attore im­portante e tanti comprimari. Que­sta è la scuola della mini-serialità che permette più agevoli strategie di fi­nanziamento e di programmazione ma i cui esiti espressivi sono spesso molto deludenti. Poi arriva la serialità america­na, poi arriva Lost. Che ci aiu­ta a capire la differenza fon­damentale tra la piccola agiografia e la grande narrazione. Firmato da Damon Lindelof, Carl­ton Cuse e da J.J. Abrams, Lost è u­na delle serie che meglio ci aiuta a ri- flettere sul mondo contemporaneo, popolata com’è da misteri: viaggi nel tempo, cospirazioni, fenomeni in­spiegabili, lotta per la sopravviven­za, sfida continua fra Fede e Ragio­ne. La natura filosofica di Lost non si esaurisce nel gioco dei nomi di fa­mosi filosofi attribuiti ai personaggi (Locke, Rousseau, Hume, Bentham) o in quello di qualche filosofo espli­citamente citato (Nietzsche)… Oc­corre piuttosto dire che la filosofia lavora al cuore di tenebra di Lost nel­la forma di una serie di questioni fondamentali: Che cos’è un isola? Che cosa significa sopravvivere? E­siste il mondo esterno o è una mera illusione? Che cos’è la verità? C’è Dio? [...] Un piccolo classico per capire Lost è certamente il libro di Hans Blumen­berg Naufragio con spettatore, dove è sviluppata l’antica metafora del naufragio che è stata spesso scelta per illustrare i rischi dell’esistenza umana nel corso della ’navigazione della vita’. Essa rinvia agli atteggiamenti fondamentali, tutti presenti in Lost, che si assumono nei con­fronti del mondo: in favore della si­curezza o del rischio, dell’estraneità o del coinvolgimento negli eventi, del ruolo dello spettatore passivo o di quello dell’attore: «Due promes­se determinano soprattutto la pre­gnanza della metaforica di naviga­zione e naufragio: il mare come con­fine assegnato dalla natura allo spa­zio delle imprese umane e, d’altro canto, la sua demonizzazione come sfera dell’imprevedibilità, dell’anar­chia, del disorientamento. Fin nell’i­conografia cristiana il mare è il luo­go dell’epifania del male, anche col tratto gnostico di una figurazione della materia bruta che tutto in­ghiotte e riprende in sé. Tra le pro­messe dell’Apocalisse di Giovanni c’è anche quella che nello stato mes­sianico non ci sarà più il mare (« he thalassa ouk esti eti »). Nella sua for­ma pura l’andar errando è un’e­spressione per arbitrio delle poten­ze scatenate: la ricusazione del ri­torno in patria – come accade ad O­disseo, il vagare senza meta ed infi­ne il naufragio, nel quale l’affidabi­lità del cosmo diventa dubbia e vie­ne anticipato il suo controvalore gnostico». Il senso del mondo mo­derno sta nella risposta a una gran­de domanda di Pascal (raffigurata dalla metafora dell’immenso nau­fragio in cui è precipitato l’uomo), che è diventata la chiave della no­stra esistenza. Possiamo vivere nel perenne naufragio? Possiamo vive­re senza terra, senza base, senza sta­bilità, senza specola dalla quale guardare? Anche Lost si pone que­ste eterne domande. Lost è una lun­ga interrogazione sul destino, cioè la domanda delle domande cui l’uo­mo tenta di dare una risposta da quando non subisce come le bestie; da quando Amleto si accorge che ’The time is out of joint’, è fuori dei cardini: lo dobbiamo accettare il no­stro futuro o possiamo eluderlo?