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 2009  dicembre 11 Venerdì calendario

La lunga crisi del «modello Spagna»- C’era una volta un Paese emerso dalla dittatura, che riuscì a ina­nellare due decenni di boom e a integrarsi da protagonista in Europa

La lunga crisi del «modello Spagna»- C’era una volta un Paese emerso dalla dittatura, che riuscì a ina­nellare due decenni di boom e a integrarsi da protagonista in Europa. Di recente quel Paese è caduto in una pro­fonda recessione, benché il governo pas­si gran parte del tempo a ricordare che l’economia nazionale va meglio di tante altre. Tutti sanno che quel governo avrebbe bisogno di tagliare la spesa per controllare il debito, ma non è facile. Pe­sa il potere di veto dei piccoli partiti re­gionali, che paralizzano la mano del pri­mo ministro di fronte a tutte le riforme più difficili; e pesa anche quella riforma varata a metà del 2009 in nome del fede­ralismo fiscale, che devolve circa metà del potere di spesa pubblica alle regioni e dunque rende problematico controllar­lo dal centro. Su questo sfondo, le dispa­rità fra Nord avanzato e Sud più arretra­to appaiono sempre più vistose. Se vi ricorda qualcosa, siete probabil­mente fuori strada. Nessuna metafora re­siste a lungo e alla fine neanche la Spa­gna – per sua fortuna o no – condivide lo stesso percorso dell’Italia. Vero, si pos­sono trovare innumerevoli somiglianze. In Spagna molte piccole imprese tradizio­nali, per esempio nel settore delle pia­strelle di Valencia, hanno tanta paura del­la concorrenza cinese da averla ormai de­monizzata. In realtà anche lì i problemi sono altrove: una produttività stagnante e un mercato del lavoro spezzato in due, fondato sull’ingiustizia generazionale. I dipendenti più anziani spesso sono iper­protetti, i giovani invece restano bloccati su contratti precari e sempre esposti in prima fila ai licenziamenti in tempo di crisi. Negli ultimi anni l’afflusso di stra­nieri nei mestieri più umili ha raggiunto quasi il 10% della forza-lavoro. E del re­sto anche nella penisola iberica non man­cano i punti di forza e le eccellenze, fra le quali spiccano banche solide come San­tander e Bbva e certi gruppi di «public utilities» che continuano a espandersi in Europa e nel mondo. L’italiana Enel si è radicata in Spagna, la spagnola Telefoni­ca gioca un ruolo importante in Italia. Eppure nei ceti dirigenti iberici nessu­no si è mai identificato con l’altra grande penisola mediterranea. Visti dalle élite di Madrid o di Barcellona, quelli di Spagna e Italia devono restare invece percorsi di­versi fra due sistemi in concorrenza. In vicende del genere non mancano mai i momenti simbolici e nell’ascesa spagnola uno di questi è arrivato nel 2007. Esattamente due anni fa Eurostat certificò che Madrid aveva conseguito il suo sorpasso, un po’ come l’Italia lo an­nunciò sulla Gran Bretagna nell’85. Il prodotto interno lordo in «standard di poteri d’acquisto» (un modo per misura­re il diverso costo della vita nei vari Pae­si) dal 2006 è diventato più alto in Spa­gna che in Italia. Comunque lo si guardi, non è un evento di poco conto: fatta pari a 100 la media l’Unione europea, gli iberi­ci erano a 93 nel 1997 e gli italiani a 119 (i francesi, a 114). Fu il risultato di un quindicennio in cui la crescita media era stata del 3,6% e un’amministrazione strutturata da secoli di gestione di un im­pero globale, aveva trasformato in svilup­po e vere infrastrutture i 186 miliardi di fondi ricevuti da Bruxelles. In questo non avrebbe potuto essere più diversa dall’Italia, dalla sua amministrazione e dalla sua spesa per il Mezzogiorno. José Luis Zapatero fece ciò che i politi­ci a tutte le latitudini fanno sempre in queste occasioni: vantarsi. «Nel 2008 consolideremo i risultato con una cresci­ta al 3,8% incrementando il nostro van­taggio sull’Italia, e poi andremo all’inse­guimento della Francia e della Germa­nia ». Ma ancora un po’ come nell’Italia della seconda metà degli Anni 80, quella fu la fine di una stagione e non l’inizio. La disoccupazione era scesa dal 24% al­l’ 8% fra il ”94 e il 2007 ma da allora è risa­lita fino una previsione del 20% nel 2010. La crescita è stata minima nel 2008, è crollata quest’anno e l’agenzia di rating Standard&Poor’s prevede che resterà strutturalmente bassa sull’orizzonte pre­vedibile. Dopo un primo taglio del ra­ting, S&P’s sembra prepararsi a un altro intervento, anche se un’emergenza del ti­po greco resta impensabile. A uscire a pezzi è piuttosto la certezza espressa da Zapatero un anno fa, nel punto acuto del­la crisi: «Quando tornerà la calma – ave­va detto il premier – la Spagna riprende­rà a crescere senza aver sofferto danni strutturali». Non andrà così. Serviranno anni per assorbire l’enorme debito privato e un’of­ferta di quasi un milione di abitazioni l’anno con una domanda di meno della metà. La principale industria e fonte di lavoro del Paese, l’edilizia, resterà in cri­si a lungo. Sulle sue macerie sta crescen­do quella che è stata chiamata una «gene­racion ni-ni», né studio né lavoro, né esperienza professionale, né capacità di avviare una famiglia: giovani precari, vit­time del 90% di tutti i licenziamenti, quel­li che il filosofo francese Alain Touraine di recente ha definito i nuovi «schiavi li­beri » che «hanno perso la strada». Niente di tutto questo giustifica in Ita­lia la «schadenfreude», la gioia dei mali altrui. E non solo perché il reddito per abitante Spp resta comunque più alto fra i cugini iberici: il «controsorpasso», per quello che vale, non è in vista. Ma non c’è da gioire perché per certi aspetti la Spagna non è il modello che si sperava, forse perché nessun modello di un tem­po dato è esportabile fino in fondo in al­tri luoghi e momenti. Solo il conformi­smo intellettuale degli anni pre-crisi po­teva farlo credere. Ora, nota l’economista di Unicredit Marco Annunziata citando John Donne, «inutile chiedersi per chi suona la campana in Europa: essa suona sempre per noi».