Federico Fubini, Corriere della sera 11/12/2009, 11 dicembre 2009
La lunga crisi del «modello Spagna»- C’era una volta un Paese emerso dalla dittatura, che riuscì a inanellare due decenni di boom e a integrarsi da protagonista in Europa
La lunga crisi del «modello Spagna»- C’era una volta un Paese emerso dalla dittatura, che riuscì a inanellare due decenni di boom e a integrarsi da protagonista in Europa. Di recente quel Paese è caduto in una profonda recessione, benché il governo passi gran parte del tempo a ricordare che l’economia nazionale va meglio di tante altre. Tutti sanno che quel governo avrebbe bisogno di tagliare la spesa per controllare il debito, ma non è facile. Pesa il potere di veto dei piccoli partiti regionali, che paralizzano la mano del primo ministro di fronte a tutte le riforme più difficili; e pesa anche quella riforma varata a metà del 2009 in nome del federalismo fiscale, che devolve circa metà del potere di spesa pubblica alle regioni e dunque rende problematico controllarlo dal centro. Su questo sfondo, le disparità fra Nord avanzato e Sud più arretrato appaiono sempre più vistose. Se vi ricorda qualcosa, siete probabilmente fuori strada. Nessuna metafora resiste a lungo e alla fine neanche la Spagna – per sua fortuna o no – condivide lo stesso percorso dell’Italia. Vero, si possono trovare innumerevoli somiglianze. In Spagna molte piccole imprese tradizionali, per esempio nel settore delle piastrelle di Valencia, hanno tanta paura della concorrenza cinese da averla ormai demonizzata. In realtà anche lì i problemi sono altrove: una produttività stagnante e un mercato del lavoro spezzato in due, fondato sull’ingiustizia generazionale. I dipendenti più anziani spesso sono iperprotetti, i giovani invece restano bloccati su contratti precari e sempre esposti in prima fila ai licenziamenti in tempo di crisi. Negli ultimi anni l’afflusso di stranieri nei mestieri più umili ha raggiunto quasi il 10% della forza-lavoro. E del resto anche nella penisola iberica non mancano i punti di forza e le eccellenze, fra le quali spiccano banche solide come Santander e Bbva e certi gruppi di «public utilities» che continuano a espandersi in Europa e nel mondo. L’italiana Enel si è radicata in Spagna, la spagnola Telefonica gioca un ruolo importante in Italia. Eppure nei ceti dirigenti iberici nessuno si è mai identificato con l’altra grande penisola mediterranea. Visti dalle élite di Madrid o di Barcellona, quelli di Spagna e Italia devono restare invece percorsi diversi fra due sistemi in concorrenza. In vicende del genere non mancano mai i momenti simbolici e nell’ascesa spagnola uno di questi è arrivato nel 2007. Esattamente due anni fa Eurostat certificò che Madrid aveva conseguito il suo sorpasso, un po’ come l’Italia lo annunciò sulla Gran Bretagna nell’85. Il prodotto interno lordo in «standard di poteri d’acquisto» (un modo per misurare il diverso costo della vita nei vari Paesi) dal 2006 è diventato più alto in Spagna che in Italia. Comunque lo si guardi, non è un evento di poco conto: fatta pari a 100 la media l’Unione europea, gli iberici erano a 93 nel 1997 e gli italiani a 119 (i francesi, a 114). Fu il risultato di un quindicennio in cui la crescita media era stata del 3,6% e un’amministrazione strutturata da secoli di gestione di un impero globale, aveva trasformato in sviluppo e vere infrastrutture i 186 miliardi di fondi ricevuti da Bruxelles. In questo non avrebbe potuto essere più diversa dall’Italia, dalla sua amministrazione e dalla sua spesa per il Mezzogiorno. José Luis Zapatero fece ciò che i politici a tutte le latitudini fanno sempre in queste occasioni: vantarsi. «Nel 2008 consolideremo i risultato con una crescita al 3,8% incrementando il nostro vantaggio sull’Italia, e poi andremo all’inseguimento della Francia e della Germania ». Ma ancora un po’ come nell’Italia della seconda metà degli Anni 80, quella fu la fine di una stagione e non l’inizio. La disoccupazione era scesa dal 24% all’ 8% fra il ”94 e il 2007 ma da allora è risalita fino una previsione del 20% nel 2010. La crescita è stata minima nel 2008, è crollata quest’anno e l’agenzia di rating Standard&Poor’s prevede che resterà strutturalmente bassa sull’orizzonte prevedibile. Dopo un primo taglio del rating, S&P’s sembra prepararsi a un altro intervento, anche se un’emergenza del tipo greco resta impensabile. A uscire a pezzi è piuttosto la certezza espressa da Zapatero un anno fa, nel punto acuto della crisi: «Quando tornerà la calma – aveva detto il premier – la Spagna riprenderà a crescere senza aver sofferto danni strutturali». Non andrà così. Serviranno anni per assorbire l’enorme debito privato e un’offerta di quasi un milione di abitazioni l’anno con una domanda di meno della metà. La principale industria e fonte di lavoro del Paese, l’edilizia, resterà in crisi a lungo. Sulle sue macerie sta crescendo quella che è stata chiamata una «generacion ni-ni», né studio né lavoro, né esperienza professionale, né capacità di avviare una famiglia: giovani precari, vittime del 90% di tutti i licenziamenti, quelli che il filosofo francese Alain Touraine di recente ha definito i nuovi «schiavi liberi » che «hanno perso la strada». Niente di tutto questo giustifica in Italia la «schadenfreude», la gioia dei mali altrui. E non solo perché il reddito per abitante Spp resta comunque più alto fra i cugini iberici: il «controsorpasso», per quello che vale, non è in vista. Ma non c’è da gioire perché per certi aspetti la Spagna non è il modello che si sperava, forse perché nessun modello di un tempo dato è esportabile fino in fondo in altri luoghi e momenti. Solo il conformismo intellettuale degli anni pre-crisi poteva farlo credere. Ora, nota l’economista di Unicredit Marco Annunziata citando John Donne, «inutile chiedersi per chi suona la campana in Europa: essa suona sempre per noi».