Tommaso Basevi, IL dicembre 2009, 11 dicembre 2009
LA SVIZZERA ”VA IN VACCA”
Basteranno tre donne per ridare slancio alla Svizzera? Con la nomina a presidente della confederazione, Doris Leuthard raggiunge Pascale Bruderer Wyss e Erika Forster Vannini (presidente della Camera bassa e presidente del consiglio degli Stati).
Sarà sufficiente? La Svizzera vacilla, accerchiata, isolata e pure sbeffeggiata. «Siamo un’antilope ferita nella fossa dei leoni», spiegava qualche tempo fa il direttore di Actares Roby Tschopp, in una tavola rotonda organizzata dal quotidiano ginevrino Le Temps. La crisi che ha toccato il mondo della finanza ripercuotendosi poi sull’economia reale non ha risparmiato nessuno. In Svizzera, però, non ha prodotto solo effetti congiunturali, ma è riuscita a intaccare il tessuto identitario, i pilastri ideologici su cui per molto, troppo tempo la Confederazione aveva costruito la sua fama e la sua way of life.
L’inizio della fine ha un suo big bang fondativo: lo psicodramma provocato dallo scandalo che ha investito il Golem bancario Ubs, coinvolto fino all’osso nel gioco globalizzato degli hedge funds (1). Il backlash ha rischiato di mettere definitivamente ko il gigante che gli svizzeri credevano d’acciaio e che invece poggiava su un poroso basamento di titoli spazzatura. Ubs è sopravvissuta al ciclone solo grazie al soccorso statale (che qui, nella terra di Calvino e Zwingli, è stata vissuta da molti come un’eresia) e poi, come se non bastasse, la scorsa estate è stata costretta alla "delazione" dalle autorità statunitensi che reclamavano, senza troppi complimenti, la consegna dei nomi ultrasegreti dei clienti Usa minacciando, in caso l’ordine non venisse ottemperato, umilianti rappresaglie. Il colosso del credito di Zurigo ha obbedito, rompendo un tabù decennale. Ora, convalescente, si lecca le ferite, prova a ripartire ma il trauma è stato enorme. La violazione del dogma del segreto bancario, collante dell’identità nazionale, ha aperto la diga scatenando un assedio concentrico. La Francia con i suoi proclami anti-paradisi fiscali, ma soprattutto Germania e Italia, guidate dall’ex ministro dell’Economia Peer Steinbrück e dal colbertiano e "creativo" Giulio Tremonti: tutti ad attaccare Berna, capro espiatorio di un’Europa unita nel menare colpi contro la Confederazione. I segnali del malessere si colgono scorrendo i giornali, entrando nei caffè delle stazioni ferroviarie, agorà di un Paese policentrico e plurilingue.
A Ginevra l’autunno è già avanzato, ma il ricordo di un’estate difficile è ancora ben presente. Gli sceicchi arabi, capostipiti dei nouveaux riches che innaffiavano di mance i camerieri degli alberghi con vista lago di Nyon e Montreux hanno marcato visita, preferendo riservare una suite in Costa Azzurra. Tanto i casinò anche lì non mancano. Una fuga in massa con un corollario di fastidiosi incidenti diplomatici. Un uomo d’affari saudita aggredito e derubato in pieno centro ha indotto le ambasciate dei Paesi del Golfo a minacciare il boicottaggio di una città giudicata sempre più insicura, assediata da mariuoli e da transfrontalieri (francesi magari di origine maghrebina) che calano a Ginevra approfittando di una gendarmeria un poco scaltra. Ma l’harakiri più sintomatico (prima del colpo di scena di Roman Polanski con l’arresto volto a ingraziarsi la giustizia statunitense) è stato quello dell’affare Gheddafi: Hannibal Gheddafi, un tipo poco raccomandabile e per di più figlio del leader libico. Fermato con la moglie dagli zelanti agenti della polizia cantonale per aver pestato a sangue due domestici, dopo aver inanellato fermi in serie per eccesso di velocità. Affronto che ha spinto il signore di Tripoli, ormai riabilitato dal consesso internazionale, a sequestrare due cittadini elvetici a mo’ di rappresaglia. Evento che ha scatenato un nuovo psicodramma nazionale. Con la diplomazia elvetica allo sbando, presa in giro dai giornali e da Gheddafi stesso che ha giocato al gatto e al topo sicuro che nessuno sarebbe corso in aiuto della Svizzera infelix, come invece era avvenuto con le infermiere bulgare "salvate" sotto gli occhi dei media da Cecilia Sarkozy.
Isolamento, perdita di peso sullo scacchiere internazionale con gli accordi bilaterali ormai in scadenza, inservibili dopo che l’Unione Europea, con il Trattato di Lisbona, ha manifestato il desiderio di marciare unita e non ha lesinato reprimende al sistema svizzero (2). Isolamento e decadenza: se c’è un posto dove il turbamento raggiunge livelli di guardia questo è Lugano e più in generale il Ticino, il cantone "dimenticato" che, in cerca di riconoscenza, negli ultimi anni ha voltato le spalle al vicino italiano per guardare a Zurigo, la vera capitale svizzera, la città della finanza, porta d’accesso all’immenso mercato tedesco. «Tremonti? – ha scritto recentemente l’autorevole Neue Zürcher Zeitung – Una specie di Satana contemporaneo!». Spiega il giornalista dell’Hebdo Christophe Passer: «Nel Ticino tradizionalmente povero si è sviluppata negli ultimi decenni una mentalità da casinò. L’imperativo era fare soldi e farli in fretta. La finanza rappresenta il 17% del prodotto interno del cantone, il doppio di quello del resto del Paese, e dà lavoro a circa 15mila persone: la metà in banca, gli altri nella miriade di fiduciarie che fino a oggi si occupavano a tempo pieno della gestione dei capitali dei clienti d’oltrefrontiera». Tra questi, gli italiani facevano la parte del leone. Ora si stanno volatilizzando, lasciando vuote le cassette di sicurezza rossocrociate. In Piazza della Riforma montano risentimento e paranoia. La Lega dei ticinesi ha promesso ritorsioni contro i 45mila lavoratori frontalieri che ogni giorno attraversano il confine. Il presidente federale Hans-Rudolf Merz ha minacciato lo stop agli accordi sulla doppia imposizione, ingranando però subito dopo la retromarcia. girata anche la voce che in risposta ai "fiscovelox" piazzati alla frontiera dalla Guardia di Finanza italiana la Confederazione abbia fatto decollare i suoi droni che, occhiuti, perlustrano dall’alto il Varesotto e il lago di Como.
Ma fare la faccia truce conviene? Il rischio concreto è di trasformare il presente in una commedia dai risvolti grotteschi, per non dire comici. A Lugano qualcuno prova a prenderla con filosofia: gli ottimisti come il presidente della Camera di Commercio del Ticino Luca Albertoni parlano di «un nuovo inizio che potrebbe liberare il cantone dal vincolo esclusivo con la finanza favorendo così l’emersione di nuove diversificate energie». La Svizzera maldestra di questi tempi mantiene doti e settori d’eccellenza che molti grandi d’Europa le invidiano. In Ticino, ricorda Christophe Passer, «l’Università si è guadagnata uno spazio importante, il dipartimento di architettura guidato da Mario Botta ha una reputazione internazionale così come il centro di ricerca sul cancro di Franco Cavalli o quello di biomedicina di Bellinzona». A nord, poi, c’è Basilea, che grazie anche alle grandi famiglie di mecenati padroni del settore farmaceutico è diventata uno dei fulcri del collezionismo d’arte mondiale e un polo museale fondamentale. E lo sport? Romandi, romanci, ticinesi, svizzeri di lingua tedesca sono capaci di ignorarsi su tutto ritrovando poi l’orgoglio perduto sulle piste da sci o sui campi da tennis dove Roger Federer domina la scena da anni con la sua aria da bravo ragazzo, gentile e un po’ tedioso. Strano destino quello di un Paese alpino che assapora l’ebbrezza dell’America’s Cup e respira salsedine grazie a un signore di origine italiana residente a Ginevra.
Nei grotti e nei grandi alberghi d’altura gli elvetici trovano rifugio e ispirazione ma poi hanno bisogno di partire altrove. Grandi esploratori come Nicolas Bouvier e Anne Marie Schwarzenbach ce lo hanno insegnato. Certo il richiamo del cioccolato, i trenini d’alta montagna e le immancabili mucche al pascolo restano il parco giochi di un Paese che ha bisogno di miti in miniatura. Ma i tempi obbligano tutti a resettare il proprio centro di gravità e le proprie abitudini. Esemplare la notizia apparsa la scorsa estate sui giornali di lingua tedesca: «Allevatore dell’Appenzello affitta le proprie vacche per la modica somma di 390 franchi a stagione. Versando tale somma si può usufruire di una foto ricordo in compagnia del bovino, di una visita accompagnata sull’alpeggio, di formaggio a prezzo calmierato e si può pure dormire nella baita e lavorare nella stalla». C’è anche un sito: www.kuehe-mieten.ch. Pare che l’iniziativa abbia avuto un folgorante successo.
L’arte dell’arrangiarsi per far fronte alla crisi è arrivata anche qui attirando turisti in cerca di esotismo dalla Gran Bretagna, dalla Germania e pure da Bangkok. La Svizzera in fondo è anche un po’ Italia. Un’Italia creativa, però, quella che era capace di dare il meglio proprio nei momenti cupi. Non quella di oggi, incattivita e incapace di progettarsi un futuro.