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 2009  dicembre 11 Venerdì calendario

INTERVISTA A ARNALDO POMODORO

First, dicembre 2009

Così come il Signore Dio plasmò l’uomo con la polvere del suolo (Genesi 2, 7), Arnaldo trasse Pomodoro dall’argilla dei fiumi. Per l’anagrafe l’unico scultore contemporaneo che il mondo intero c’invidia è nato il 23 giugno 1926 a Morciano di Romagna, battezzato nel torrente Conca che tenta inutilmente di separare la provincia di Rimini dalle Marche con 47 chilometri di sinuosità, ma per l’arte ha visto la luce sette anni dopo a Orciano di Pesaro, fra le rive del Metauro e del Cesano, dove la sua famiglia s’era trasferita. «Col fango cavato dal greto dei corsi d’acqua modellavo fantasiose architetture. Credevo che il mio desiderio fosse costruire abitazioni civili, anche se, a ripensarci bene, in realtà facevo castelli, castelli di sabbia, ispirati alle rocche di San Leo, di Mondavio, di San Marino e a quella di Gradara dove si consumò la tragedia dantesca di Paolo e Francesca, ”amor, ch’a nullo amato amar perdona...”. Si sbriciolavano cammin facendo ogni qualvolta cercavo di portarmeli a casa. Solo da adulto, psicanalizzandomi, ho scoperto che la creta era il giocattolo che preferivo. Sì, penso d’essere uscito dal ventre di mia madre con le mani già sporche d’argilla». Da allora, inconsciamente è sempre andato in cerca del liquido amniotico nel quale aveva galleggiato felice, tanto che il suo studio milanese si trova lungo il Naviglio Grande, nel cortile di una vecchia casa di ringhiera al numero 3 di via Vigevano, a fianco della darsena di Porta Ticinese.
Il giovane Pomodoro non poteva immaginare che un giorno gli amici l’avrebbero soprannominato Arnaldo da Montefeltro, un titolo non usurpato, che Federico, il duca e mecenate di Urbino, sarebbe stato ben lieto di spartire con lui. Sentendosi predestinato all’edilizia, puntò dritto verso architettura. Ben presto fu costretto a deviare: geometra. «Era morto mio padre e io, primogenito di tre fratelli, dovevo sbrigarmi con gli studi per mantenere la famiglia». Il pugliese Antonio Pomodoro viene descritto dal figlio come «un poeta, un eclettico, che ci voleva bene ma conduceva la vita dei vitelloni felliniani». Prima che una cirrosi epatica lo stroncasse, s’era giocato tutto alle corse ippiche.
Gli altri Pomodoro, «quelli non hippy», borghesi immigrati in Romagna da Molfetta, avevano sempre lavorato al servizio dell’amministrazione statale. E siccome credeva d’essere nato per tirar su abitazioni civili, nel 1945 ecco Arnaldo, appena diciannovenne, impiegato al Genio di Pesaro, «a rinverdire l’antica tradizione di famiglia, a ricostruire i beni dello Stato distrutti dai bombardamenti lungo la Linea gotica, a liquidare i danni di guerra». Ci resterà per nove anni, rimpiangendo ogni mattina di non essersi potuto iscrivere all’istituto d’arte.
La conversione quando avvenne?
«Fu una strada lunga. In famiglia ero sempre taciturno. ”Stai male?”, mi chiedevano. Non avevo il coraggio di parlare ai miei delle visioni che avevo dentro: paesaggi, colline dilatate, strane costruzioni simili a quelle che ti vengono incontro nel dormiveglia. Al Genio civile avevo scoperto che non m’interessavano le cubature e le travature. A me piaceva solo l’abito esterno delle case. Così dalle costruzioni passai alle scenografie. Pesaro è la città del Festival nazionale d’arte drammatica. Fu la drammaturgia a offrirmi lo spunto: una casa a destra, una chiesa a sinistra, una piazza qui, una torre là... Ora potevo inserire le mie costruzioni dentro un paesaggio, pensare a una città ideale alla maniera del Bramante, con un centro che si sviluppa in forma stellare».
Perché lasciò Pesaro?
«Mi andava stretta. Nel 1953 ero venuto a Milano per la mostra di Pablo Picasso. Ne rimasi affascinato. Non era una città: era un cantiere aperto, un’esplosione di vitalità. Presentai domanda al Genio civile per essere trasferito nel capoluogo lombardo. Volevo vivere d’arte, ma non osavo lasciare l’impiego. Nel tempo libero, con mio fratello Giò, liquefacevo il piombo su un fornellino ad alcol e ottenevo piccoli rilievi inseriti dentro gli ossi di seppia. Passammo all’argento e all’oro. Diventarono gioielli. Nel 1954 chiusi col Genio».
Enzo Biagi, che arrivò a Milano in quello stesso periodo, mi raccontava che in piazza Duomo teneva per mano la moglie e le figlie per paura di perdersi.
«Io non ho mai provato questo senso di smarrimento. Quando nel 1957 scoprii Parigi, Milano già non mi bastava. E due anni dopo anche Parigi non mi diceva più nulla. Perciò presentai domanda al ministero degli Esteri e mi trasferii negli Stati Uniti a sperimentare nuovi prodotti chimici, come il fiberglass».
Alla fine è tornato a Milano, segno che ci vive bene.
«No, oggi non vivo bene a Milano. A Roma, a Torino o a Bologna sarebbe lo stesso. Non si può vivere bene in un Paese dove la cultura è trascurata. Ho dovuto erigermi da solo una fondazione, tutti gli artisti farebbero bene a pensarci mentre sono in vita, altrimenti il loro patrimonio di fatica andrà disperso. Ma se non ci fosse Unicredit ad aiutarmi... Lo Stato? Stiamo freschi. un momento terribile, per gli operatori culturali italiani».
 ancora di sinistra?
«Che cosa intende per sinistra? Nello spirito dell’artista c’è l’anarchia, sa? Non quella delle bombe, capiamoci. Non mi sono mai iscritto a un partito, mai! Quando l’artista è stato messo nelle condizioni di dover dimostrare che aveva una linea politica e tutti gli intellettuali prendevano la tessera del Pci, io sono andato negli Stati Uniti a insegnare arte nelle università, a Stanford, a Berkeley, al Mills College di Oakland. Il mio Paese ideale è l’America. Se fossi un pittore, oggi vivrei là, con Barack Obama, che rappresenta il futuro».
L’anarchia? Eppure lei sembra un uomo d’ordine. Ama le linee pulite, i tagli perfetti. La sua arte è dominata da un severo spirito geometrico.
« una geometria scomposta. Amo il disequilibrio. L’equilibrio è sul fondo, è lontano».
Poi però le sue superfici levigate e lucenti si spaccano e lasciano intravedere le viscere della scultura, simili a ingranaggi di macchine da guerra.
«Quella è la tecnologia. Come si potrebbe vivere senza? il futuro. Da tenere a freno: s’è visto a Hiroshima e Nagasaki fin dove può arrivare. Ma la curiosità dell’uomo è inarrestabile. I pochi giocattoli che ho avuto da bambino li ho sempre rotti per vedere com’erano fatti all’interno. Adesso cerco dentro i solidi della geometria euclidea. Anche della Terra, piena di fuoco, conosciamo soltanto la crosta».
Arruolato col professor Otto Lidenbrock per Viaggio al centro della Terra.
«Ma nemmeno per sogno. Io sono un Cancro».
Anch’io.
«Allora dovrebbe sapere che noi del Cancro ci avviciniamo all’acqua ma, appena ci bagniamo, ci ritraiamo spaventati».
Si figuri, io non sono nemmeno capace di nuotare.
«Io idem. Quindi è inutile che le spieghi perché non sarei mai potuto diventare un eroe di Giulio Verne».
Com’è nata la sua fissazione per le sfere?
«Dalla sperimentazione sui solidi. La sfera è perfetta, è la Terra, è il ventre materno. Nella sfera ti vedi riflesso e la sfera riflette il mondo. Gli specchi curvi c’erano persino nei circhi equestri, sono l’uovo di Colombo. Come i tagli di Lucio Fontana, che vanno al di là del quadro e che sono tornati di moda per dimostrare quanto abbia ragione il Papa».
Non la seguo.
«Il taglio di Fontana apre verso l’infinito, dimostra che gli artisti hanno spiritualità e pensano che oltre quel buco vi sia qualcosa. Ora siamo stati tutti bollati, tutti crediamo in Dio. Anche se io non so che cosa significhi credere in Dio».
Non può negare che in lei vi sia una tensione verso l’infinito: sfere che sembrano pianeti, dischi che ricordano il sole, obelischi che puntano verso il cielo.
«Non nego questa tensione ascensionale».
Infatti le è stato affidato il portale del Duomo di Cefalù.
«No, quello me l’ha bloccato Vittorio Sgarbi quand’era sottosegretario ai Beni culturali. Pare che un monumento normanno del 1200 non debba essere contaminato dall’arte contemporanea. Come se l’Italia non fosse rigurgitante di superfetazioni. Basti vedere le vetrate che un artista palermitano ha realizzato per quella stessa cattedrale. Sembrano un film in technicolor».
S’è subito consolato scolpendo l’altare e la croce nella nuova chiesa di padre Pio progettata da Renzo Piano a San Giovanni Rotondo, segno che il sacro non le è estraneo.
«Eh certo, viene fuori la mia formazione di fanciullo cattolico che andava a dottrina. Forse l’ispirazione me l’ha data il santo di Pietrelcina. Stavo assistendo alla sua beatificazione in piazza San Pietro. Il cielo era coperto, ogni tanto filtravano stilettate di sole che mi hanno fatto pensare a una croce ricca di elementi cuneiformi, piena di chiodi che feriscono il corpo, chiodi antichi, forgiati a mano, come quelli usati sul Golgota per crocifiggere Cristo».
Che cosa pensa della cattedrale di Foligno progettata da Massimiliano Fuksas?
«L’ho vista solo da lontano, mentre andavo nella tenuta dei Lunelli, i produttori dello spumante Ferrari, per i quali sto costruendo a Castelbuono di Bevagna una cantina che ricorda il carapace di una tartaruga preistorica. Be’, mi dispiace per Fuksas, ma è tutto fuorché una chiesa. Magari dentro sarà bellissima. Ma da fuori sembra uno scatolone assolutamente insignificante».
«Una cattedrale dell’apostasia, un’immane colata di cemento più simile a un inceneritore che a una chiesa», l’ha definita Camillo Langone sul Foglio.
« una descrizione perfetta. La condivido».
Certo che se la Conferenza episcopale italiana fa progettare le chiese a voi, architetti miscredenti...
«...vengono più belle».
Mi lasci finire... Per forza che i campanili, i tabernacoli e gli inginocchiatoi spariscono. Come può un artista concepire un edificio di culto se pensa che i riti celebrati al suo interno siano stregoneria, superstizione o giù di lì?
«Se mi offrissero l’incarico di progettare una chiesa, ci rifletterei parecchio prima d’accettare. Innanzitutto dovrebbe venirmi un’idea non blasfema. E poi mi accosterei al tema col massimo rispetto».
Com’è riuscito a collocare una delle sue sfere nel Cortile della Pigna dei Musei vaticani? Ha entrature nella Santa sede?
«Fu un’iniziativa del direttore, il professor Carlo Pietrangeli, che aveva visto la mia mostra al Forte Belvedere di Firenze nel 1984».
Gliel’hanno pagata?
«No. Doveva essere un dono. Io ci ho messo il sudore. Quanto ai costi di fusione, che oggi sfiorerebbero i 400 mila euro, li abbiamo coperti vendendo il bozzetto dell’opera tirato in nove esemplari».
Ammappete, che cifra!
«Le mie sculture in bronzo non sono mica come gli igloo di Mario Merz, il quale spendeva solo i soldi delle scritte al neon messe sopra per ornamento».
Altre sfere sono davanti al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, alla sede dell’Unesco a Parigi, alla Farnesina di Roma. Un suo disco solare, dono del governo italiano all’Unione Sovietica, giganteggia davanti al Palazzo della gioventù di Mosca. Non sarà per caso un artista di regime?
«Sono soltanto uno scultore che raffigura questi nostri tempi così complessi. Non viviamo sereni, diciamocelo».
Che cosa pensa di Graziano Cecchini, il provocatore che ha macchiato di rosso l’acqua della Fontana di Trevi e riempito la scalinata di Trinità dei Monti con mezzo milione di palline colorate?
«Sono contrario agli esibizionismi. Come diceva Andy Warhol, tutti possono diventare famosi per cinque minuti, il tempo di leggere una notizia sul giornale. Ma poi? Il gesto semplice ma di contenuto forte: questo conta».
Le piace il suo collega Christo, che impacchetta i monumenti?
« un’idea originale coprire brutture o edifici nei quali accadono cose imperfette. Il più bel lavoro di Christo l’ho ammirato a New York: Central Park avvolto da una labirintica distesa di veli gialli. Non avevo mai visto un inverno così allegro».
Le sono piaciuti il Papa Wojtyla colpito da un meteorite e il cavallo morente col cartello ”Inri” conficcato nella pancia, scolpiti da Maurizio Cattelan?
«Sono gesti che fanno riflettere. Per fortuna il pontefice non era imbalsamato, bensì di cera, come le statue al museo londinese di Madame Tussauds».
Che intende dire?
«Pensavo che l’equino fosse di plastica. Invece mi hanno spiegato che è un cavallo vero, imbalsamato. Oh, non voglio dire che sia stato ucciso apposta. Magari è morto di vecchiaia».
Ha condiviso la reazione indignata dei milanesi di fronte ai tre bambini, sempre opera di Cattelan, impiccati agli alberi in un giardino pubblico?
«Il mio edicolante era scandalizzato. A me non è parsa un’azione così orribile. L’Università di Trento ha fatto bene a conferirgli la laurea honoris causa in sociologia».
Durante la lectio magistralis, si fa per dire, Cattelan ha confessato al senato accademico: «Mi sento un ladro, che vi deruba della vostra fiducia. Anche questo discorso l’ho scritto insieme con un amico, rubando qualche frase qua e là».
«Non posso crederci! Ho letto di recente una sua intervista talmente intelligente che me la sono persino ritagliata e messa da parte. O ha copiato anche quella oppure s’è erudito nel frattempo».
Cattelan nel suo sito si definisce «il più quotato sul mercato tra gli artisti italiani viventi». Wikipedia scrive che Pomodoro «è considerato il più grande scultore contemporaneo italiano». Qualcuno bara. Oppure guadagni e fama non vanno a braccetto?
«I soldi pagano la libertà. Mi ritengo un uomo fortunato: sono libero. Ho sempre avuto committenti che mi hanno permesso d’ingigantire le mie sculture fino a trasformarle in architetture».
Secondo Artemotore, il controvalore complessivo delle sue opere vendute all’asta in Italia negli ultimi 14 anni ammonta a 4.695.321 euro...
«...che bello!».
Mi lasci finire... Fanno 335 mila euro l’anno, 15 mila in meno del cachet di Roberto Benigni per una comparsata all’ultimo Festival di Sanremo.
«Che bello per Benigni!».
Nel 2002 lei dichiarò a Selezione dal Reader’s Digest: «Tutto è stato mercificato. La gente con i soldi vuole comprare l’arte mentre l’arte non si compra». Urge spiegazione. Se l’arte non si compra, i collezionisti come fanno? E, soprattutto, lei di che vive?
«Forse lo dissi allora. Ma non lo penso oggi».
Di lei il critico Francesco Bonami ha scritto: «Pomodoro ha avuto una mezza idea qualche decennio fa e con quella si è iscritto all’associazione monumenti ai caduti di tutto il mondo, una specie di Rotary della scultura pubblica».
«Non m’interessa ciò che scrive Bonami, nonostante sia una persona colta e intelligente».
Dei critici in generale che cosa pensa?
«Sono molto utili».
Quale stima di più?
« morto nel giugno scorso a 88 anni. Si chiamava Giovanni Carandente. Fu lui, nel 1962, a spronarmi a realizzare la mia prima grande scultura, in ferro, da esporre in occasione del Festival dei Due Mondi a Spoleto».
Esistono ancora i mecenati?
«Sì. Negli Anni 60 erano le gallerie d’arte che ti mettevano sotto contratto, nel mio caso la Marlborough di New York, e pochi illuminati, per esempio Marella Caracciolo col marito Gianni Agnelli o Pietro Barilla. Oggi sono le industrie, come la Pepsi-Cola».
Quando ebbe l’esatta percezione d’essere diventato famoso?
«Ma io non l’ho mai avuta, questa esatta percezione. Sì, lo so che mi considerano piuttosto famoso. Però ho sempre cercato di allontanare da me il clamore, sono un solitario che tende a rinchiudersi in se stesso. Quando nel 1963 alla Biennale di San Paolo del Brasile stavano per assegnarmi il primo riconoscimento importante della mia carriera, invece di aspettare il verdetto dei giurati scappai a Salvador de Bahia, che mi era stata descritta come una città meravigliosa. Al ritorno in hotel trovai un biglietto del critico Carlo Giulio Argan: ”Congratulazioni, ha vinto il premio internazionale della scultura”».
Di chi sono le opere d’arte che tiene in casa?
«Gastone Novelli, Jannis Kounellis, Mario Schifano, Alighiero Boetti, Enrico Baj, Mimmo Paladino, Gianfranco Pardi, Giuseppe Spagnulo, Mauro Staccioli. E molte grafiche, da Pablo Picasso a Paul Klee».
Nulla di Arnaldo Pomodoro?
«Nulla. A parte un calco di gesso dell’autoritratto di Antonio Canova, che presento per scherzo agli amici dicendo che è il mio».
Per il suo rapporto con Giò vale il detto «fratelli coltelli»?
«No, non vale. stato per molti anni un sodalizio affettuoso, interrotto nel pieno della giovinezza perché ciascuno di noi voleva trovare se stesso. Alla fine, quando ho saputo della malattia, ho ripreso un dialogo che in cuor nostro non s’era mai interrotto. Gli sono stato vicino sino alla fine. Nella vita ho visto morire un’unica persona: Giorgio, mio fratello».
Stefano Lorenzetto